Da Monsignor Francesco Savino, Vescovo di Cassano all’Jonio, riceviamo e pubblichiamo:
“L’uomo, scrive Aristotele, è “il vivente che ha la parola” (zôon lógon échon) “Discutere quando si deve discutere, ma davanti allo spirito di accanimento occorre avere il coraggio di tacere”. (Papa Francesco, Santa Marta, 27 marzo 2020) C’è un accanimento delle parole nel tempo angoscioso che stiamo vivendo che mi ha indotto a riflettere insieme con voi sull’uso e abuso di esse nella dimenticanza quasi totale di un ethos (modo di essere e di vivere) che le curi, le accompagni, le riempia di senso. Ritrovare oggi, al tempo infinito del coronavirus, un’etica della parola, significa concepirla come modo di abitare il mondo, riscoprirne il nucleo germinale, senza confinarla ad un gesto incardinato in un comportamento, senza conferirle l’abito sgualcito dell’abitudine. In piena pandemia, dobbiamo impegnarci tutti a ricucire l’etica delle nostre parole, imparando a fare i conti con le nostre fragilità. Se è vero che viviamo l’epoca che amplifica le sinergie tra globalizzazione ed intelligenza artificiale, di cui quotidianamente esaltiamo il successo e l’eccezionalità, che si ripercuotono sul dinamismo economico, è vero anche che ne abbiamo trascurato le contraddizioni, gli squilibri e le derivanti disuguaglianze. La pandemia da coronavirus, un evento disatteso e spaventoso, ci presenta il conto, dopo un lauto pasto in cui ci è stato servito il delirio di onnipotenza delle magnifiche sorti progressiste. Alle nostre fragilità neanche la Scienza per prova ed errore, delle sperimentazioni, dei tagli e degli investimenti economici, degli errori, della ricerca forsennata di una soluzione, può trovare una cura.
C’è, dunque, bisogno di un’ulteriore attenzione alle parole che riducendosi al solo mezzo di comunicazione, soppiantando la gestualità, l’inflessione della voce e la tenerezza degli sguardi, devono essere dosate per non diventare la spada di Damocle sugli equilibri precari che stiamo difendendo. Stiamo a casa, soli, in preda al panico dettato dall’avanzare della morte, di una morte silenziosa, infame, travestita da virus, per cui ogni nostro vicino è un potenziale untore, una mina vagante, anche nelle barricate virtuali dei social. Parlare non è più un parlarsi, un cercare una comunità della risposta, non è più quella che l’antropologo tedesco Arnold Gehlen ha definito “autoaffettività della voce”, non siamo più in grado di abitare le reazioni dell’altro, non siamo più in grado di ribaltare la dimensione dell’io in favore dell’alterità, in favore di quel confronto con l’altro, di quella convivialità delle differenze, che ci classifica come essere umani. Siamo costretti, in questo tempo infausto, a devocalizzare le parole, ma intanto le stiamo privando anche dell’etica, del loro abitare il mondo, del farle Vangelo per i più deboli, lemmario per i più colti, cura per gli ammalati. E allora lasciatemi aggiungere all’etica della parola, una parola più etica cioè più corrispondente alla realtà: RESPONSABILITÀ.
Oggi siamo chiamati ad essere responsabili, modulando la nostra condotta, il nostro campo corporeo, il potere del nostro linguaggio non verbale. Non lasciamoci sedurre dalla paura, non diamo spazio alla menzogna della cattiveria, non abbandoniamoci all’olocausto dell’anima, ritroviamo piuttosto un’etica della parola che ci restituisca il senso della vita, che attecchisca su questo terreno poroso su cui traballano, ora, le nostre certezze. Non diventiamo quella che Umberto Eco ha definito “una legione di imbecilli”. Eco non era un pentito della democrazia, né un mediologo nostalgico. Umberto Eco ci ha invitato ad usare i social media con intelligenza, senza gratificare, coltivare e promuovere l’imbecillità. Di fronte alla possibilità di cadere nell’errore, di dar credito a fake news, allarmismi e comizi della paura, impegniamoci a riscoprirci responsabili. Dobbiamo capire che dalle nostre incertezze, dalle nostre fragilità, ne usciremo con la nostra “abilità nel rispondere” (che è il senso vero della parola responsabilità), smettendola di banalizzare e strumentalizzare la parola e restituendole uno status deontologico rispetto alle ristrettezze dalla perdita di speranza. Sostiene Luciano Manicardi, priore della comunità di Bose, che l’etica della parola implica tre livelli: il rispetto per l’altro (a cui si parla), rispetto per la parola (che viene pronunciata) e rispetto per se stessi (cioè, per il parlante: dire è sempre dirsi). Questo rispetto manca al menzognero! Scrive I. Kant: “la comunicazione dei propri pensieri a un altro con parole che indicano (intenzionalmente) il contrario di ciò che pensa chi sta parlando, rappresenta uno scopo esattamente opposto alla finalità naturale della sua facoltà di comunicare i propri pensieri e, per ciò, una rinunzia alla propria responsabilità, così che il mentitore risulta essere solo un’apparenza d’uomo, non un vero uomo” (I. Kant, Sulla menzogna).
Un’ultima considerazione che mi sento di fare, in tema di etica e di parola, è la riscoperta dell’etica del silenzio, dilatando l’invito a tacere di Papa Francesco. Le immagini di questi giorni, sono immagini che ci raccontano di balconi in festa, dai quali si intona l’inno nazionale che sembra ricongiungerci in un’unica identità. Sono immagini che disegnano un altro modo di esorcizzare la paura della morte, che diventano l’emblema del reinventarsi, per allontanare la tristezza. Ora, in verità, è soprattutto tempo di restituire alla preghiera ed al silenzio il ruolo di respiro per l’umanità, cercando di trasmettere anche ai più giovani, che sono quelli più esposti alla dimensione mass mediale, l’importanza vitale di una intimissima dimensione di senso, che si configuri come la metafora di un abbraccio, in attesa di quelli veri, quelli che si sostituiranno al vuoto di questi giorni, all’esplosione di questa primavera così intangibile, che disegna inverni sui volti. Affidiamoci, dunque al silenzio e facciamo nostre le parole di Guareschi sulla verità, che è il fondamento di tutto ciò che ho desiderato comunicare. “La verità non si insegna; bisogna scoprirla, conquistarla. Pensare, farsi una coscienza. Non cercare uno che pensi per voi, che vi insegni come dovete essere liberi. Qui si vedono gli effetti: dagli effetti risalire alle cause, individuare il male. Strapparsi dalla massa, dal pensiero collettivo, come una pietra dall’acciottolato, ritrovare in se stessi l’individuo, la coscienza personale. Impostare il problema morale. Domani, appena toccherete col piede la vostra terra troverete uno che vi insegnerà la verità, poi un secondo che vorrà insegnarvela, poi un quarto, un quinto che vorranno tutti insegnarvi la verità in termini diversi, spesso contrastanti. Bisogna prepararsi qui, “liberarsi” qui in prigionia, per non rimanere prigionieri del primo che v’aspetta alla stazione, o del secondo o del terzo. Ma passare ogni parola loro al vaglio della propria coscienza e, dalle individuate falsità d’ognuno, scoprire la verità”. (Giovannino Guareschi, Diario clandestino)”.