Due giorni fa, ci ha lasciato il fratello di papà, emigrato in America Latina negli anni ’50.
Ho avuto la fortuna di vederlo quattro volte, due in Italia e due in Argentina.
È stato un grande italiano, capace di costruire una famiglia numerosa, superando ogni difficoltà con forza d’animo e una positività travolgente.
Vorrei ricordarlo con un articolo scritto qualche anno fa, pensando alla sua storia.
Buon viaggio zio Franco, ti immagino sorridente come sempre, anche se il mio cuore è travolto da un’amara e silente pioggia di lacrime.
Zio Francesco, per tutti Franco, ha
compiuto ottant’anni.
Ha festeggiato assieme alla sua famiglia.
Quattro figli,
sei nipoti e una pronipote. Abitano a Santa Rosa de Calchines, un villaggio
nato nei pressi di un affluente del Paranà.
Una pianura infinita maculata da
specchi d’acqua impenetrabile.
Natura selvaggia. Un’oasi umida che s’estende a
vista d’occhio strenuamente difesa dall’assalto della speculazione edilizia.
Case basse in mattoni rossi e legno. Strade sterrate e squadrate e un fiume da
percorrere in lancia attraverso un labirinto di piante acquatiche. Una piazza
fiorita e la chiesa dedicata a Santa Rosa da Lima.
Il nome della città deriva
dalla fusione della devozione con l’etnia dei primi abitanti. In origine era
una missione francescana che, dopo vari traslochi, si è suddivisa creando tre
municipalità. Una di queste è la cittadina che sta crescendo nei pressi del rio
San Javier.
Zio Franco sposò il sogno argentino non
ancora maggiorenne. Era apprendista meccanico. Aveva imparato il mestiere
nell’officina di un lontano parente in provincia di Bari. Ma quella provincia
gli andava stretta. Le urla, la mancanza di rispetto. No, non era il lavoro
duro o le difficoltà economiche che lo avvilivano. Era la grettezza becera, la
saccenteria pronunciata ad alta voce, specchio dell’incapacità di crescere che
in certi posti grava sulla gente e la fa collassare.
La sua giovanissima anima
guardava oltre le mura cittadine di chiara pietra calcarea. Il sole brillava
nella pupilla, al centro degli occhi celesti. Il sole era proprio al centro,
stampato sulla fascia bianca orizzontale frapposta a quelle celesti della
bandiera di quell’enorme e materna nazione latina.
Era la fine degli anni ’40 e i sogni
erano pagine di un diario di viaggio, fischi del vapore della nave pronta a
salpare. La speranza era di un verde sognato, il verde dei campi di una terra
lontana due mesi di mare. La speranza cresceva e straripava. Un irruento fiume
in piena che investiva tutti. Uomini e donne se ne andavano in massa a cercar
fortuna. E non era la prima volta. Zii, prozii, parenti più o meno lontani
avevano già tentato e trovato la via dell’Argentina a cavallo dei secoli.
Il
primo grande flusso migratorio traslocò migliaia di giovani e meno giovani coi
sogni chiusi nelle valigie di cartone. Anche zio Franco trovò il motivo del
viaggio nel desiderio di raggiungere un famigliare. Col cuore gonfio di
aspettative, intraprese la navigazione transoceanica. Mi piace immaginare che
ogni giorno vissuto in quella nave sia stato bagnato da gocce salate di
felicità.
Il porto di Buenos Aires pullulava di
sbarchi. Erano gli anni del presidente Peròn, gli italiani erano la manodopera
del progetto di sviluppo argentino. Le richieste economiche sudamericane
incontravano l’orientamento politico del Belpaese. L’arrivo nella capitale
spalancava un mondo sconosciuto ma accogliente. Il quartiere dei pescatori
raccontava storie di genovesi giunti a popolare le baracche colorate. Gli
immigrati che non si fermavano nella capitale, si spostavano nella provincia di
Santa Fe. Una sola regione pari all’Italia per estensione e forma. Un’altra
specie di stivale incastonato all’interno delle sconfinate “pampas”.
La prima fermata per
zio Franco fu Rosario, metropoli del “Monumento a la bandera”, di grattacieli
cresciuti nel tipico schema a “quadra”, scacchiera di isolati da cento metri
sagomati da larghe strade. Si legò a una ragazza argentina e mise a frutto
quanto appreso nelle officine della provincia barese. Diventò motorista.
Successivamente, spostandosi più a nord nelle campagne coltivate, vicino al
selvaggio habitat del rio San Javier piantò l’insegna a bandiera della sua
attività. Sulla “ruta provincial 1”, in poco tempo costruì la casa, crebbe i
figli, trovò la vita. Sulla carta d’identità cambiò Francesco in Francisco.
Chi è emigrato, ritorna. Compie al
contrario la traversata mosso dal vincolo con la cultura italiana, dalla
necessità di abbracciare i parenti. Chi può, percorre l’Oceano Atlantico e
cambia emisfero di frequente, ma la maggior parte non dispone di risorse
sufficienti a coprire i costi dei voli intercontinentali. I pochi rimpatri sono
memorie di famiglia che sbiadiscono nelle fotografie ma non nei cuori di chi
sopravvive.
Era la metà degli anni ’80 e zio Franco
tornò in Puglia da sudamericano. Era Natale e i giorni si colorarono di
imprevista compagnia. Tavolate immense suonavano di piatti in porcellana
decorata presa dalle credenze. Le giornate corte delle feste avevano la crosta
dura e il cuore tenero dei dolci di mandorle. La festa era accendere le luci
sul balcone. E per i piccoli nipoti si spalancò ad un tratto un mondo nuovo che
superò anche la più intrepida immaginazione. Una parentesi nella vita affollata
dalle prime disillusioni. Un intervallo di luce nell’inverno cupo e infinito.
Quell’inverno che ripiombò d’improvviso quando all’aeroporto l’ultimo saluto
causò un flusso inarrestabile di lacrime.
Molti anni dopo zio Franco è tornato in
Italia con più rughe e meno energia. Ha portato negli occhi il vicolo cieco
della pesante crisi economica e di un passato di sacrifici deturpato da
incapaci governanti. Tuttavia, ha portato ancora con sé la luce dell’estate
australe. Afosa, esplosiva. La stagione migliore per ricambiare la visita. E
così è stato più di una volta, a testimoniare un legame che supera il vincolo
anagrafico della parentela.
Toccando il suolo argentino, innanzitutto
disorienta un riverbero di grande intensità. I dettagli della città e del
territorio appaiono oltremodo definiti. Chi non è preparato rimane frastornato
da tale abbondanza. Il tempo si dilata nello spazio e, dai ritmi calcolati
delle città si espande fino a perdersi nelle campagne delle coltivazioni e
degli allevamenti. La strada per la provincia di Santa Fe è monotona nei
panorami ma ricca di presenze animali e vegetali. Il viaggio è su gomme, lungo
ma non estenuante. I pullman sono confortevoli, valida alternativa alle
scadenti ferrovie. Partono da Buenos Aires verso tutte le direzioni. Per i
tragitti più lunghi, esistono quelli con poltroncine in pelle ribaltabili, veri
e propri letti viaggianti.
L’abbraccio dei consanguinei toglie il
fiato e fa vibrar le viscere. Radicati in una terra fertile, gli italo
argentini sprigionano l’energia di un sorriso curioso e disinteressato. I
bambini sono risorsa e motivo per credere nel futuro. I bambini sono un fiore
coloratissimo e profumato, un fiore sincero che ha fretta di sbocciare. Ma sono
esili pilastri che reggono il futuro. Perché, se ogni impresa è vana, –
sostiene Jorge Luis Borges – “nulla si costruisce sulla pietra, tutto sulla
sabbia. Ma abbiamo il dovere di costruire sulla sabbia come se fosse pietra”. E
l’uomo si riscatta nella quotidianità del suo lavoro.
Quando ho chiesto se si sentisse più
italiano o argentino, zio Franco non ha avuto dubbi. Ma la sua risposta
scaturiva da un semplice conteggio degli anni trascorsi. Forse, era spinta
dalla gratitudine sempre viva per un Paese che l’aveva accolto a braccia aperte
oltre mezzo secolo prima. Gli italiani diventati argentini sono la maggioranza
della popolazione. Lo denunciano i cognomi conclusi da vocali, i voli
giornalieri che trasportano gli affetti e la curiosità dei parenti in cerca di
rami di famiglia estesi oltreoceano. Titolari di ristoranti, gestori di garage,
artigiani ma anche professionisti, imprenditori. Fino a quell’uomo solo al
tavolo del bar del teatro Colon di Buenos Aires, pronto ad attaccar bottone e a
gettare fuori espressioni pure di nostalgia. Fra i mestieri più comuni e
semplici, nei luoghi della vita d’ogni giorno t’imbatti quasi sempre in
qualcuno che ha legami con l’Italia. Basta l’accento a tradirti. È impossibile
sottrarsi. Si finisce a parlare dell’amata nazione d’origine, di un ricordo o
un desiderio ancora acceso.
Dai villaggi alle città e alle
metropoli, l’Argentina porta i segni dell’entusiasmo e della dedizione dei
nostri emigranti. La provincia di Santa Fe come quella di Buenos Aires, per
metà ha sangue tricolore. Migliaia di microcosmi che formano un’unica isola.
Marciano con la crescita lenta e costante di una società che rialza la china.
Un’immensa nazione che continua a sprigionare forza di seduzione, fino ad
affascinare nuovamente i cittadini del giardino d’Europa, stretto nella morsa
di una crisi avvilente. E non solo chi ha pezzi di cuore in case isolate
vicino al rio San Javier dove zio Franco, bisnonno e vedovo, masticando parole
italiane recupera emozioni dalla mente appannata. La sua memoria è un oceano di
giorni trascorsi ad aggiustare i diesel ed ora tentenna all’ombra dei
discendenti in una terra diventata seconda e definitiva patria.
Ci sono persone che hanno dedicato la
vita a seminare bellezza nel silenzio dell’umiltà, che hanno levato gli ormeggi
ma non le ancore dei sentimenti, che hanno mirato lontano partendo dalle
piccole cose. Sono sicuramente fra le persone che vengono ignorate ma, secondo
Borges, “sono quelle che stanno salvando il mondo”.