Era sceso per Natale, per le vacanze, per riabbracciare la sua famiglia.
Era sceso da Milano a Bitonto per aiutare il suo babbo nella raccolta delle olive assieme agli altri due fratelli.
Michele era sceso per abbracciare le sue sorelle e la più piccola, appena adolescente.
Un ragazzo con una immensa gioia di vivere, solare, il sorriso giocondo, gli occhi vispi.
Ma si sa. Quando si sposa l’arma, si decide di servire lo Stato si crea attorno a sé una immensa capsula di freddezza.
Non traspare nulla.
Soltanto la corazza di un uomo che tiene dentro di sé emozioni, sentimenti, che non può mostrarsi debole, vulnerabile, impaurito.
E ogni mattina, dopo aver indossato la corazza sull’anima, si corre e si prova a compiere al meglio il proprio lavoro.
Accadde anche quell’otto gennaio 1980.
Michele aveva lasciato qui la sua famiglia ed era tornato a lavoro al commissariato di Porta Ticinese della Questura di Milano.
Era in servizio di perlustrazione, in borghese con un’auto civetta, per fabbriche e scuole nella parte Sud della città, assieme ad altri due colleghi Rocco Santoro, vicebrigadiere, l’appuntato Antonio Cestari.
Erano le 8.15 e l’auto dei tre viene speronata da una 128 bianca che li stava già seguendo da un po’.
I poliziotti pensano ad una casualità, ma è un attentato in piena regola: i brigatisti della colonna “Walter Alasia”, iniziano a sparare a raffica con armi automatiche.
Gli agenti non hanno possibilità di reazione e muoiono sul colpo riversi sui sedili. Il cuore giovane di Tatulli smise di battere.
I terroristi, Nicolò De Maria, Barbara Balzerani, Mario Moretti e Nicola Gianicola, riescono a fuggire e le Br rivendicano l’atto come “benvenuto” al Generale Dalla Chiesa appena giunto a Milano.
Quella stessa mattina la sorellina più piccola di Michele era uscita per andare a scuola e a casa non ci fece più ritorno per tre giorni.
“Incontrai mio cugino per strada e mi invitò a pranzo, a casa loro”.
L’entusiasmo di stare con i cuginetti, non le fece notare che si sviava sui telegiornali, ci si spostava, ma poi il sesto senso sul fatto che potesse essere accaduto qualcosa di brutto, prese il sopravvento.
“Pretesi di tornare a casa, di capire cosa stesse succedendo. Quando aprì la porta trovai così tanta gente, le stanze erano invase. E tutto ciò che riuscì a fare, fu correre nella mia stanza per piangere mio fratello, il dolce fratello che voleva portarmi con sé a Milano dopo la scuola per assicurarmi un futuro migliore”.
E poi il funerale. Sembrava che anche il cielo piangesse a fiotti quel giovane concittadino colpito al cuore da terroristi spietati che combattendo lo Stato, combattevano la vita, il futuro, i sogni.
Cosa resta oggi di questo giovane eroe?
Strade, ceppi, lapidi commemorative, ghirlande, parole, sì.
Ma che resti forte, indelebile, tra le giovani generazioni, il ricordo di questo ragazzo che aveva il diritto di vivere.
La storia di un giovane che è stato strappato dalla terra e che vive ancora nel cuore di chi l’ha amato.
Che ha lasciato traccia indelebile nella storia della nostra città.