“L’inferno dei viventi non
è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che
abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non
soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne
parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige
attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in
mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Tra queste righe di Italo Calvino, tratte da “Le città invisibili”, si scorge una
delle più grandi problematiche che affliggono l’uomo dell’odierna società: il
senso di inadeguatezza che lo conducono a un perenne oscillare tra l’eros e il
thanatos.
Amore o morte, per lui non
ci sono mezze misure. Lo dimostrano, ad esempio, i personaggi dei racconti noir di Mariella Pisicchio,
un’autrice originaria di Corato e laureata in Filologia all’Università Aldo
Moro di Bari.
All’interno del libro “Il fiore della follia”, l’autrice
affronta diverse tematiche che son sottese e legate da un unico filo rosso: la
possibilità di superare i propri limiti andando oltre la razionalità, che
qualche volta imbriglia l’uomo negli angoli più bui della propria anima.
Suggestionante e sofisticata è stata la sua
presentazione –moderata dalla giornalista Ilaria
Teofilo, laureata in Filologia moderna-, nella cornice del Torrione
Angioino, grazie alla compagnia teatrale Okiko
Drama diretta dal regista Piergiorgio
Meola.
Sono stati messi in scena,
in particolare, due racconti della Pisicchio: “Il mandato” e “Il fiore
della follia”.
«Paradossalmente è l’amore che fa più male all’uomo –ha affermato
l’autrice-, lo rende vulnerabile davanti
all’altro. Le parole possono soltanto costruire effimere maschere di cera che
finiscono per sciogliersi e rendere inevitabile il lasciare dietro di se un
cumulo di macerie. Tuttavia, bisogna anche saperle ricogliere e far di esse
cemento per un nuovo castello».
L’uomo deve cercare la sua
strada, fare le sue scelte e nel suo folle vivere deve comportarsi come un
fiore. Esso è il simbolo della pura bellezza, della vita, del resistere alle
intemperie perché non c’è odore migliore di un petalo bagnato dalla pioggia.
«Questo è uno dei libri che quando finisci di leggere –ha commentato
il regista Piergiorgio-, hai necessità di
riaprirlo perché ti accorgi che quanto può sembrarti surreale di primo acchito,
non è altro che parte del tuo mondo».
La riflessione che verrà
fuori sarà quella luce che rischiarerà la vista e aprirà una nuova finestra,
lontana dalle convenzioni di una società borghese che affliggono i protagonisti
dei racconti dell’autrice.