Ho sempre guardato con triste stupore e un po’ di amaro sospetto al giorno dopo di una tragedia. Sembra quasi un giorno normale, come tutti gli altri. Specie, poi, se trattasi d’un dì di festa. Spari annunciano la processione, che sfilerà la sera per le strade della città col consueto corteo di illusi peccatori, qualche trattore scaracchiando s’allontana per i campi, torpida sbadiglia qualche finestra, impavidi podisti si sfideranno di corsa, indomenicati a dovere molti si recheranno a messa, persino allo stadio s’andrà a gridare per sostenere i beniamini del pallone. Ecco, ma, in tutto questo, in questa opaca quotidianità che sommerge la ferita che ancora sanguina, che ne è stato del cuore straziato dei genitori dei due ragazzi morti sabato all’alba, dentro un’infanzia di cielo? Nell’abisso di buio che è il dolore senza fine di una poltiglia di lamiere accartocciate, nel vortice di parole che non consolano e che neppure si ascoltano, nei corpi sfigurati di quei piccini (povero grumo di sogni perduti, ormai) che no, non potranno mai coricarsi dentro quegli assi di legno per poi non alzarsi più, nell’urlo disperato di chi non può capire il senso del dolore e chiede ad un Dio creduto assente: “Ma perché? Perché proprio a me?”. Ed avrà voglia la natura ad esplodere i suoi colori, perfino quelli malinconici dell’autunno, o i cari a sorridere per aiutarti a superare questo momento, l’ombra del rammarico e della rabbia sarà sempre lì, dentro il petto. Forse è vero che vivere significa dimenticarsi che si può morire, ma così proprio non è giusto. E non muore giovane chi è caro agli dei, anzi dovrebbe campare ancor di più. Fiori che non hanno fatto in tempo a sentire la carezza del vento, quei ragazzi, che subito sono stati crudelmente recisi. E l’amore dei genitori, che resterà inutile come la sabbia di una clessidra che nessuno più girerà…