Nei giorni scorsi, a Palo del Colle, l’attore Salvatore Striano, detto Sasà, è stato ospite del Rigenera SmartCity, il festival delle periferie organizzato in questi giorni dal laboratorio urbano Rigenera.
L’attore ha parlato della sua esperienza, dal passaggio dalla sua precedente vita da spacciatore di droga a Napoli al suo esordio cinematografico in Gomorra, il film di Matteo Garrone ispirato all’omonimo libro di Roberto Saviano.
«Le porte dello Stato erano chiuse e quelle della criminalità erano aperte» introduce Striano, parlando della sua infanzia e del suo ingresso nel mondo criminale. In un contesto di emarginazione sociale, l’attore racconta di aver mosso i primi passi nella criminalità. Finché, dopo vari arresti e dopo una latitanza, viene arrestato a Madrid e rinchiuso a Rebibbia.
«Sarei tornato a delinquere se non fosse stato per due persone» ammette Striano, ricordando le due figure che l’hanno accompagnato nel cambiamento.
La prima è la madre, morta durante la sua permanenza in carcere: «Dopo tutto quello che ha fatto per me, dopo tutte le preoccupazioni, la vita non facile che ha fatto anche a causa mia, non sono riuscito ad esserle accanto negli ultimi momenti di vita. Il rimorso è grande».
La seconda persona che l’ha convinto a trovare un’altra strada, che non fosse quella criminale, è stata William Shakespeare, di cui Striano racconta di aver conosciuto le opere in occasione di un laboratorio di teatro per detenuti, condotto dal regista Fabio Cavalli. Attraverso la letteratura, i drammi del drammaturgo inglese e quelli di Edoardo De Filippo ha capito che stava sbagliando. Ha imparato ad affrontare i suoi tormenti, i suoi sensi di colpa. E ha capito che poteva esserci un’altra strada da percorrere.
«Il teatro serve a confrontarci con i sentimenti» come disse in un’intervista di due anni fa pubblicata su Linkiesta.
E così, coltivando quella nuova passione, l’ex criminale si è ritrovato ad essere un attore, prima teatrale e poi cinematografico, chiamato a recitare in film come Fortapasc, Gorbaciof e tanti altri.
«Il ruolo della cultura è importante nel contrastare la criminalità. Attraverso la cultura si può far capire ai ragazzi che la strada criminale non è quella giusta. I criminali hanno tanti soldi ma non possono neanche stare accanto ad una madre morente, hanno ville ma non possono viverci perché costretti a nascondersi» è la conclusione di Striano, che invita a tenere vivi centri come Rigenera e tutte quelle strutture in grado di offrire alternative, centri di aggregazione, far scoprire la cultura e trasmettere interessi.
Quello di Striano è senza dubbio un caso riuscito di reintegro nella società di un individuo che ne aveva infranto le regole. Un esempio positivo di quella funzione riabilitativa che è, o perlomeno dovrebbe essere, propria dell’ordinamento giuridico di una democrazia. Nella nostra costituzione, questo principio è enunciato nell’articolo 27 comma 3, che recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»;
Un principio fondamentale della nostra civiltà che, abbandonata la funzione meramente punitiva della pena, mira oggi a perdonare, a dare una seconda possibilità, a riabilitare e reintegrare nella società.
Principio sacrosanto. Ma che spesso nella realtà fa fatica a realizzarsi. Spesso dal carcere i detenuti escono ancora più incattiviti. E non necessariamente a causa dell’indole dell’individuo. Spesso, purtroppo, non si è in grado di offrire qualcos’altro. Vuoi per le condizioni di vita in prigione, vuoi per il marchio perenne che un ex detenuto si porta addosso, anche fuori del carcere, come ha spiegato anche Striano.
Se ci sono casi positivi come quello di Striano, anche meno famosi, ci sono anche casi in cui, pur in presenza di una volontà a fare una vita diversa, l’ex detenuto torna a delinquere.
Ricordo quando, anni fa, quando, incontrai una persona con un passato criminale ma che aveva finalmente deciso di cambiare vita. Dopo tanti anni, tuttavia, a malincuore, disse, aveva ripreso nuovamente la vecchia strada.
«Almeno così sono vivo – mi disse – Non facendo nulla mi sentivo un morto. Cercavo solo un lavoro che non mi è stato dato. È tutto una falsità. La mia strada è la vecchia, perché non mi piace essere preso in giro».
Lungi dall’accettare tali giustificazioni, anche perché è erroneo pensare che le possibilità di cambiamento debbano venire solo dall’esterno, senza una reale volontà interiore. Ma questo, in ogni caso, è un esempio di fallimento di quell’obiettivo della rieducazione contemplato dalla nostra legge fondamentale, segno sicuramente della difficoltà dell’individuo ad immaginare strade diverse, rischiando così di ritornare al crimine alle prime difficoltà. Ma è anche sintomo della difficoltà sia della società ad accogliere chi, in passato, ha sbagliato, marchiandolo e additandolo a vita, sia delle istituzioni carcerarie che spesso falliscono nel proposito di proporre altri modelli di vita al detenuto.
Se è vero che se, da parte del detenuto, manca la voglia di cambiare, ogni tentativo resta inutile, è anche vero che anche da parte di Stato e società spesso non c’è molta capacità di offrire una seria possibilità di reintegro. Si rischia di escludere, emarginare l’ex carcerato. Un’esclusione che, aggiungendo rancore e risentimento, porta più facilmente quest’ultimo nuovamente sulla via del crimine. Come un gatto che si morde la coda.