Fake news. Falsa notizia, per dirla con l’idioma italico. Un’espressione usata per indicare fenomeni molto diversi tra loro dagli errori dettati dalla disattenzione del redattore di un articolo giornalistico alle cosiddette bufale, dalle teorie complottiste a concetti satirici talvolta utilizzati come fonti giornalistiche in modo improprio. Talvolta si tratta semplicemente di notizie non verificate frutto di un errore o di un giornalismo di bassa qualità. Altre volte di informazioni false atte a stimolare la curiosità del lettore disattento del web e lanciate da siti internet per generare profitti dal click-baiting (letteralmente “esca per click”, cioè “notizie” il cui unico scopo e far sì che l’internauta pigi il tasto del mouse quando il cursore è sul link).
Altre volte si tratta di falsità atte spesso ad influire sull’opinione pubblica per cercare di avvalorare determinate tesi. Spesso strumento di propaganda per il populismo e per regimi dittatoriali che se ne avvantaggiano per costruire una macchina del consenso. Spesso, sono persino un’arma da utilizzare in guerre, interne o esterne, per screditare il nemico o per avere l’appoggio della popolazione.
Talvolta, però, un’espressione utilizzata a sproposito da politici, al fine attaccare la stampa associata, giudicata come avversa e parziale nei confronti degli stessi.
Se pure in salsa locale, fake news possono definirsi anche le tante voci che durante le campagne elettorali, specialmente amministrative, si diffondono tra le strade, tra le piazze della città e, oggi, tra le pagine dei social dedicati alla politica locale. A chi scrive più volte sono giunte all’orecchio, specialmente durante le competizioni per il rinnovo del consiglio comunale, notizie improbabili tendenti a screditare personaggi politici avversi a chi parlava. Notizie che, tramandandosi di voce in voce, mutavano forma in ogni bocca da cui si dipanavano. Oppure, rimanendo in ambito locale, fake news possono essere anche notizie di cronaca diffuse al fine di diffondere paura verso un gruppo etnico differente. Qualcuno ricorderà, ad esempio, quando, qualche anno fa, anche a Bitonto si diffuse una notizia relativa ad un furgone bianco, con a bordo persone dell’est che cercavano di rapire bambini. Era dicembre del 2013 e la notizia si rivelò vera a metà. Il furgone bianco c’era e anche le persone dell’est europeo, che però erano innocui cittadini bulgari in città perché dipendenti di un circo. Il resto fu frutto di paura, incapacità di scindere le notizie affidabili dalle altre, di normale istinto di protezione verso i figli, da parte di qualsiasi genitore e, talvolta, di razzismo verso gruppi etnici differenti. Quella del furgone bianco è una fake news che puntualmente si ripresenta in diverse città italiane. Si ripresentò qualche anno dopo a Bitonto. Ma il fantomatico furgone bianco, nelle stesse ore, era anche in altre regioni italiane, dal sud al nord, passando per la Sardegna. In tutti i casi, a bordo, c’erano sempre persone dell’est che cercavano, senza successo, di rapire pargoli.
Ma torniamo ad ambiti ben più larghi. L’argomento “fake news” è spesso protagonista delle cronache odierne, sin da quando l’avvento del web, dei social network, delle app di messaggistica istantanea hanno incrementato sia la massa di notizie a disposizione, sia la velocità di propagazione, diminuendo, però, il tempo a disposizione per approfondire quanto letto.
Ma parlare di fake news come di un fenomeno moderno, significherebbe scrivere un’ulteriore fake news. Già perché non è certo un fenomeno nato con internet, con Facebook, Twitter, Instagram, Tik Tok, Whatsapp o Telegram. Si tratta, invece, di qualcosa che affonda profonde radici nella notte dei tempi.
Tra gli esempi più illustri e storicamente influenti di fake news, il podio, probabilmente, lo meritano i Protocolli dei Savi di Sion. Per chi non lo sapesse, si tratta di una raccolta di 24 protocolli, in cui i capi della comunità ebraica mondiale descrivono il loro piano per conquistare il mondo e porvi, alla guida, un loro sovrano. Protocolli redatti in una riunione tenutasi a cavallo tra XIX e XX secolo e resi noti dopo che «questi appunti furono tolti clandestinamente da un grande libro di appunti per conferenze trovati nella cassaforte del quartier generale della società di Sion, che è attualmente in Francia» secondo quel che scrisse il responsabile della pubblicazione dei Protocolli, lo scrittore russo Sergej Nilus. Questi, nell’introduzione, raccontò di aver ricevuto, nel 1901, «da un amico personale, ora defunto, un manoscritto, il quale, con una precisione e chiarezza straordinaria, descrive il piano e lo sviluppo di una sinistra congiura mondiale».
Un piano che, secondo Nilus, avrebbe provocato la caduta della cristianità, attraverso la conquista della Russia cristiana, e la venuta dell’Anticristo, incarnato, appunto, dai cosiddetti “Anziani di Sion”. Inutile dire che di vero non c’era assolutamente nulla. Quelle pagine non sono altro che un grande falso storico, creato dal plagio di opere precedenti e ideato dagli ambienti antisemitici russi e dalla polizia segreta zarista, l’Ochrana, che già in precedenza aveva promosso la redazione di articoli che individuavano negli ebrei la causa della crisi che in quel momento stava vivendo l’Impero degli Zar, reduce dall’umiliante sconfitta nella guerra contro i giapponesi e preoccupata dalla diffusione del bolscevismo.
I Protocolli furono uno strumento utile per fornire una giustificazione alle persecuzioni avviate non solo nei confronti della minoranza ebraica, ma anche di socialisti e liberali. Questi, infatti, nel testo dei Protocolli erano accusati di portare avanti cause e teorie economiche ideate appositamente dai Savi di Sion per creare caos e di indebolire l’impero russo.
La situazione drammatica che, agli inizi degli anni ’20 viveva la Germania fu terreno fertile per i Protocolli. Furono utili alla narrazione di una sconfitta non causata da colpe tedesche, ma da un piano degli ebrei. Furono citati più volte da Hitler e dalla propaganda nazionalsocialista.
«Fino a che punto l’intera esistenza di questo popolo sia basata sulla menzogna continua è dimostrato nei Protocolli degli Anziani di Sion» scrisse il dittatore tedesco nel suo Mein Kampf. Premesse che favorirono il più grande sterminio del ‘900: l’Olocausto.
Si possono citare miriadi di altri esempi di fake news. Potremmo pensare alle fantomatiche armi di distruzione di massa che avrebbe avuto Saddam Hssein, a detta degli Stati Uniti. Delle notizie sulla Corea del Nord diffuse dai servizi segreti della Corea del Sud al solo fine di screditare il nemico, ma spesso smentite clamorosamente. Della storia dei comunisti che mangiano i bambini, nata dalla propaganda occidentale che, cavalcando le informazioni provenienti dalla Cina sui casi di cannibalismo a seguito di grave carestia, approfittarono per screditare il paese comunista. Della macchina della disinformazione sovietica. O, per finire ai giorni nostri, alle false notizie che abbondano sin da quando è scoppiata la guerra tra Russia e Ucraina. Da una parte e dall’altra, perché, come insegna la storia, guerra e informazione non vanno d’accordo in quanto spesso le notizie sono inventate e diffuse ad arte dai servizi segreti dei paesi belligeranti al fine di alimentare l’irredentismo dei connazionali o di screditare il nemico.
“Quando scoppia la guerra, la prima vittima è la verità” disse nel 1917 il senatore statunitense e governatore della California Hiram Johnson.
Internet ha consentito un’amplificazione del fenomeno, come abbiamo sostenuto all’inizio. Le fake news, oggi più di ieri, si diffondono come un virus, non più solo di voce in voce, ma anche tramite blog e bacheche dei social, tanto che per porre rimedio, si sta cercando di porre rimedio ricorrendo a sistemi che, sfruttando l’intelligenza artificiale, cercano di bloccare sul nascere la diffusione. Con risultati che, però, talvolta rischiano di essere una cura peggiore del male e produrre una censura di posizioni diverse.
Ma anche la disinformazione, al pari dei suoi rimedi, si evolve con la tecnologia e i recenti sviluppi lo dimostrano. Oggi, tramite intelligenza artificiale è possibile creare foto credibili e verosimili, vere e proprie fake news in formato fotografico.
Ne ha parlato, in una recente intervista su Wired, il barese Claudio Riccio, insegnante di Etica della comunicazione allo Ied di Roma ed autore di alcune finte foto del funerale di Silvio Berlusconi, realizzate qualche mese prima di quello vero. Foto quasi indistinguibili da foto vere: «Con questa provocazione quello su cui mi interessava porre l’accento non è certo la vicenda politica e tantomeno umana di Berlusconi. […] A troppe persone sfugge un aspetto cruciale della rivoluzione industriale e culturale in atto: nel giro di poche settimane potrebbe cambiare drasticamente il nostro rapporto con la conoscenza e l’informazione».
Strumenti sempre più performanti: «Nel giro di settimane, al massimo mesi, avremo strumenti con cui sarà possibile realizzare immagini del tutto indistinguibili a occhio nudo da una vera fotografia. Chiunque, senza particolari competenze professionali, potrà generare immagini apparentemente frutto di una macchina fotografica professionale, magari quella di un foto reporter. Cosa accadrà al nostro rapporto con le informazioni audiovisive? Riuscirà il giornalismo a riconquistare la credibilità necessaria a tornare a essere “l’unica fonte attendibile”? Che fine farà il citizen journalism? E soprattutto: esisterà ancora la verità? Saremo capaci di credere ancora a una immagine?».
Una situazione destinata a peggiorare con l’evolversi della tecnologia e che è destinata a proporsi anche sottoforma di video o audio, tramite i “deepfake”, contenuti multimediali che, partendo da immagini e audio reali, ricreano o modificano in modo estremamente realistico, i movimenti, le caratteristiche fisiche e la voce di un determinato soggetto e sono, dunque, in grado di far dire a qualcuno parole in realtà mai pronunciate.