“Il Nero di Troia è un vitigno che matura a inizio ottobre caratterizzato da buccia nera e spessa, con polpa carnosa e dolce. Dà vini di buona alcolicità con ottima intensità colorante, dai riflessi violacei di grande personalità.
L’uva di Troia è fra le più antiche della Puglia centro-settentrionale e molto diffusa nel territorio di Mariotto, Terlizzi, Ruvo di Puglia, Toritto, Binetto, Grumo Appula, Corato, Andria, Trani, San Ferdinando di Puglia.
Dopo le distruzioni provocate nell’Ottocento dalla fillossera, la ricostruzione del ‘vigneto Puglia” fu essenzialmente mono varietale e basata, a seconda delle zone, sui vitigni Negramaro, Primitivo e Nero di Troia, con l’obiettivo di ottenere vini robusti e alcolici, ottimali per rinvigorire le produzioni dei paesi del Nord.
Il mito
Vuole la leggenda che il mitico eroe greco Diomede, conclusasi la guerra di Troia, navigasse per il mare Adriatico fino a risalire il fiume Ofanto e lì, trovato il luogo ideale, vi ancorasse la nave con delle pietre delle mura della città di Troia che aveva portato con sé come zavorra, utilizzandole come cippi di confine per delimitare il territorio di quelli da quel momento si chiamarono i Campi Diomedei.
Sempre la leggenda aggiunge che Diomede aveva portato con sé, come ricordo, quei tralci di vite che, piantati sulle rive dell’Ofanto, dettero origine all’Uva di Troia. Fin qui la leggenda che riecheggia anche in lavori di ampelografi (ad es., S. Del Gaudio e L. Ciasca, ‘Principali vitigni da vino coltivati in Italia”, 1960) che descrivono l’Uva di Troia come «originaria dell’Asia minore (Troia) e importata dagli antichi Greci in Puglia».
Le altre ipotesi
Altre ipotesi, riferite ad un tempo più vicino, fanno derivare il nome dell’Uva di Troia dalla cittadina pugliese di Troia, appunto, in provincia di Foggia o, ancora, dalla città albanese di Kruja o Cruja (il cui nome sarebbe poi stato vernacolizzato in Troia) o, infine, dalla regione galizio-catalana della Rioja.
Quest’ultima ipotesi fa riferimento agli anni della dominazione spagnola in Puglia ed in particolare al Governatorato (iniziato nel 1745) della giurisdizione di Troia di Don Alfonso d’Avalos, originario di quella regione. Verificato che i suoi nuovi possedimenti avevano le caratteristiche idonee alla coltivazione della vite, Don Alfonso decise di impiantarvi vigneti e, in particolare, di impiantarvi una varietà di vite proveniente dal suo paese di origine.
In breve tempo ne ottenne un vino prestigioso che acquistò notorietà e fama con il nome di Nero di Troia.
Che il vitigno trasferito da Don Alfonso fosse l’attuale “Uva di Troia” è ipotesi che, per il momento, non trova conferme nell’attuale panorama ampelografico della Rioja dove i vitigni a bacca nera coltivati sono, fra l’altro, il Tempranillo, la Garnacha, il Mazuelo ed il Graciano. Il primo, che più degli altri ricorda l’Uva di Troia, richiama, peraltro, più il Montepulciano che l’Uva di Troia. Ciò non toglie che un’attenta ricerca sui vitigni citati e sul loro dna potrebbe fornire informazioni utili per definire la vera identità del vitigno in questione.
Risale al 1877 (G. Di Rovasenda, ‘Varietà coltivate in Puglia. Saggio di ampelografia universale”, 1877) la prima descrizione organica dell’Uva di Troia indicata, in agro di Trani, come Nero di Troia e, nel barese, come Uva di Troja o di Canosa. Qualche anno più tardi, viene riferito che già nel 1854 si erano registrati in Capitanata impianti sperimentali di Uva di Troia – «varietà robusta, resistente alla siccità ed abbastanza produttiva» – a «ceppo basso, isolato e in riga, sistema che i romani dicevano humilis sine adminiculo e che oggi nella regione si riconosce col nome di vigna a sistema latino».
L’Uva di Troia in tempi recenti
A partire da quegli anni, l’Uva di Troia (o i suoi sinonimi) trova regolarmente posto nella letteratura specializzata e viene regolarmente indicata come «uno dei vitigni pugliesi più importanti per la produzione di vini da taglio». In tempi più recenti (M. Vitagliano, 1985) se ne osservano, in particolare, la variabilità della forma del grafico e della dimensione dell’acino fino a ipotizzare l’esistenza – fino ad oggi, peraltro, non dimostrata – di due sottovarietà: la cosiddetta Troia di Canosa o di Corato (a grappoli più grandi e più tozzi, più o meno spargoli, e i cui acini grossi forniscono vino abbastanza tannico) e la cosiddetta Troia di Barletta o Tranese (i cui grappoli sono cilindrici, più piccoli, più o meno serrati e i cui acini più piccoli danno un prodotto meno tannico)”