Bruxelles, 29 maggio 1985, Juventus-Liverpool.
Trent’anni fa. Finale di Coppa dei Campioni – non la Champions League, come il business onnivoro ha ribattezzato il torneo dedicato a chi vince lo scudetto.
Fine del calcio romantico.
Punto.
Una data che nessuno potrà mai cancellare dal cimitero delle memorie tristi.
Chiunque l’abbia vissuta – anche solo da bambino trepidante dinanzi alla prima tv a colori – sa che niente sarebbe stato come prima.
Una partita di calcio che presto divenne un inferno.
Uno stadio decrepito, l’Heysel, ridotto a fossa comune.
Una bolgia dantesca di corpi ammassati, calpestati, fracassati.
La folle furia alcolica anglosassone aveva schiantato la nuda ingenuità italica.
Sulla lapide, incisi con inchiostro rosso sangue 39 nomi, 32 italiani. Fra loro, il commerciante barese che vendeva giocattoli, la diciassettenne che sognava di fare la giornalista, il giovane medico che si era tirato fuori dal gorgo disperato di gambe e braccia e che in quel mare di morte si rituffò per cercare di donare la vita a chi stava morendo.
Poi, 4 belgi, 1 irlandese e 2 francesi.
“Erano di Nancy, concittadini di Michel Platini, erano venuti lì per ammirare le Roi. Incontrammo un loro amico che piangeva e si batteva il petto, quasi facendosi una colpa d’essere sopravvissuto, sul ciglio del grande parco che custodiva lo stadio, dinanzi alla cabina telefonica che avrebbe aiutato uomini e donne di diversa nazionalità a comunicare ai propri cari che ce l’avevano fatta, erano riusciti a scampare alla fine di tutto“, ricorda il professor Raffaele Picciotti e ancora la voce s’incrina di dolore.
“Ero lì in viaggio di nozze. Decisi con mia moglie di farlo in economia, agganciandoci al club bianconero del marito della preside dell’istituto bergamasco dove insegnavo allora e regalandoci anche il biglietto per la finalissima di Coppa dei Campioni contro il Liverpool“, principia il viaggio indietro nel tempo, fra immagini ancora duramente nitide.
“Al mattino facemmo un giro turistico per Bruxelles e sai qual era la beffa? Che per le strade incontravamo tifosi inglesi e ci scambiavamo fraternamente sciarpe e cappellini. Nulla faceva presagire quel che sarebbe successo qualche ora dopo. Certo, vedevamo questi gruppi girare a torso nudo, con casse di birra in mano e alcuni distesi nei prati a dormire, ma niente di così sconvolgente. Dopo aver fatto una scomoda e asfissiante fila che terminava ad imbuto, entrammo verso le cinque nell’Heysel. Prendemmo posto nella tribuna destinata ai tifosi della Juventus, di fronte al famigerato settore Z, dove i belgi sistemarono alla rinfusa chi acquistò il biglietto all’ultimo istante. Capimmo subito che era uno stadio fatiscente, inadeguato, assurdo, con gradini bassi al posto delle gradinate. Bastava un colpo col tacco per staccare pietre e farne oggetti contundenti. Solo cinque uomini delle forze dell’ordine separavano i tifosi italiani da quegli inglesi. Incredibile“, il dramma è all’orizzonte.
Anzi, peggio, di fronte: “Dall’altra parte dello stadio notammo cariche ad ondate paurose di hooligans sui sostenitori bianconeri, ma non potevamo mai immaginare che stava crollando il muro che avrebbe fatto precipitare una folla di anime nel vallo profondo che separava il settore Z dalla tribuna centrale. Panico assoluto. Ultra bianconeri inveleniti brandivano pietre e mostravano l’intenzione di attraversare il terreno di gioco per andare a vendicare i fratelli bianconeri che stavano morendo. ecco, a quel punto, la gendarmeria a cavallo almeno evitò che venissero a contatto le due tifoserie. L’indimenticabile Gaetano Scirea annunciò che la partita si sarebbe giocata lo stesso e raccomandò a tutti di restare calmi. Alle 21.40, il match ebbe inizio“.
“Quando l’acrobata cade, entrano i clown“, sentenziò l’attuale presidente Uefa, che pure, in quella sera ferita, festeggiò la vittoria artigliata con un rigore fasullo brandendo l’orecchiuto trofeo.
“Nell’intervallo, giunse trafelato sui gradoni nostri un uomo con lo sguardo stralunato e la giacca a brandelli. Era un sopravvissuto del settore Z (dove erano seduti altri sette bitontini, ndr). Ci raccontò tutto. Allora, io e mia moglie ci prendemmo per mano e stringendoci forte fuggimmo via dallo stadio, incuranti del fatto che si sarebbe giocato il secondo tempo. Attraversammo trepidanti il grande parco immerso nell’oscurità e raggiungemmo finalmente la cabina telefonica dove mettemmo a disposizione di tutti gli spiccioli per avvisare i cari, che, a casa in Italia e ovunque, già temevano il peggio“, il prof rimembra pensoso.
“Quelle scene, poi viste pure sui giornali francesi il giorno seguente, restano indelebili in me“, conclude lapidario Picciotti.
Già, lapidario come la lapide, che riporta quella data maledetta e quei 39 nomi, e che nessuno potrà mai cancellare dal cimitero delle memorie tristi.