Il vetro ha mille volti. Tra le sue
sfaccettature, i suoi anfratti, le sue rifrangenze, le sue molteplici sembianze
il vetro regala lo schiudersi di un mistero: la donna. Sembra che
questo materiale incarni la natura femminile, regalandone un ritratto avvolto
nel fascino, dai mille impenetrabili profili, impregnato di misticità, poesia e
suggestione.
Quando fuso, il vetro è energia che si
trasforma: con armonia decide di obbedire all’arte, si rende amante della
creatività, si fa complice dell’immaginazione.
Malleabile, è in continuo divenire;
sciogliendo il vetro sembra possibile scongelare un’emozione. Partorisce una
forza primitiva mai stanca e mai stantia: vuole ricongiungersi alla perfezione,
vestirsi del sublime, ambisce ad essere un istante eterno.
Il vetro pretende molto da se stesso, ma
dà molto. È la donna caparbia, forte, che si mette totalmente in gioco per la
buona riuscita dei suoi propositi, senza risparmio d’energie e con costanti
nuove risorse.
Quando si presta alle mani esperte dei
forgiatori, il vetro si diverte fra le fiamme del fuoco, gioca con le sfumature
bluastre dello zinco, si concede alla volontà di chi vuole deformarlo, ma si
beffa della pretesa di ingabbiarlo in una forma finita e definita. E’ la donna
che ama ballare e abbraccia la vita: mai ferma, mai scontata, pronta a
rinnovarsi, si ribella all’inerzia, ha l’anima selvaggia e testarda come le
onde del mare, accondiscende senza mai tradire la propria natura e mantiene il
garbo e l’eleganza delle signore distinte di un tempo, con le gambe incrociate,
la collana di perle e i guanti di raso bianchi.
I componenti del vetro si abbracciano in
un materiale omogeneo e aggraziato, perfetto nel suo equilibrio, chiuso nella
sua eleganza, che non esige onorificenze come il diamante, ma non si confonde nel terreno come comune magnetite.
Oscilla fra la grandezza e l’umiltà
interpretando con versatilità tutti i suoi ruoli: proviene dalla sabbia, ma
basta aggiungervi dell’ossido di piombo per ergerlo a cristallo; se poi lo si
affina con l’argento, diventa specchio foriero di immagini.
Trasparente, si lascia attraversare
dalla luce e concede alla vista di soffermarsi su tutto ciò che c’è alle sue
spalle; si eclissa, rinunciando alla propria vanità. E’ il ritratto della donna
che si pone in secondo piano, che rifugge dalle attenzioni, che distoglie lo
sguardo quando la si fissa, opera silenziosamente e con modestia. E’ la donna
madre che si mette da parte per far spazio agli altri, pensa a sé solo se c’è
tempo. Si obnubila, ma non le costa molto sacrificio: l’umiltà è nella sua
natura.
Limpido e traslucente, è la donna di
larghe vedute che abbraccia nuove prospettive, che affronta con coraggio
orizzonti sconosciuti, che non si preclude mai ipotesi diverse di vita; viscoso
e duttile, è la donna che intuisce in ogni situazione una via d’uscita, con
l’atarassia e la sicurezza di chi non teme lo scorrere del tempo, di chi
permette sempre di rimediare ad un errore, come se sbagliare fosse insito nella
natura e dunque concesso senza colpe.
Incompiuto quando è malleabile, il vetro
diventa l’opera d’arte che non rivela mai il suo mistero, lo si maneggia con
cura e sembra sempre che possa dare ancora il meglio di sé. E’ la donna che non
schiude mai la sua essenza, la meraviglia che non si concede mai ad una fine e
che è sempre così maledettamente inesplorata. Ti sembra di conoscerla, di
averla fatta tua, eppure la donna è sempre pronta a stupire con nuovi profili,
nuovi bagliori di bellezza. E allora così come l’opera d’arte, selvaggia e
indomabile, danna l’artista in quanto questi non riesce a possederla, allo
stesso modo si scorge nella donna sempre qualcosa di infinito e intraducibile
nelle sue movenze.
Eppure, è proprio questo avvicinarsi
alla sua essenza senza mai toccarla davvero, che rende la donna e l’opera
d’arte qualcosa di sacro, di magico. Chi cerca di ammansire la forza che le
pervade, finisce per divenirne schiavo; farle proprie è l’oasi che illude nel
deserto, è la droga che dà assuefazione, è il veleno e il suo antidoto.
Vi è solo un aspetto del vetro
apparentemente negativo: la fragilità.
Ma chi stabilisce poi che la fragilità
sia una debolezza o che il suo rivelarsi sia un deterrente? Chi osa occultare
la fragilità quasi fosse un difetto inglorioso? Chi è quell’impostore che vuole
vendere la forza per maschio e la fragilità per femmina?
La fragilità e la forza si intrecciano
nelle stesse trame che ci permettono di mostrarci per quello che siamo: uomini,
donne, con i nostri eccessi e le nostre mancanze.
La forza si nutre della fragilità per
partorire l’elasticità: i rami degli alberi non restano fermi all’alitare del
vento e neppure si spezzano; danzano flessibili e sono accomodanti verso le intemperie.
Esse sono lo la potenza e la resistenza
della stessa leva, i contrappesi che permettono la realizzazione
dell’equilibrio, che è sempre giusto.
E allora, mi piace pensare al vetro
nella sua forma più vera, quando incontra il fuoco e si fa versatile, invasato
dalla forza della vita, consapevole del limite a cui si concederà una volta
solido, ma che fermo in attimi eterni, come una donna bellissima e passionale,
amabilmente danza.