Sul finire degli anni ’80, il sistema politico noto come “Prima Repubblica” era ormai in piena crisi. Una crisi dovuta a tanti fattori. Internazionali e nazionali. A livello internazionale, le picconate al Muro di Berlino fecero sgretolare, nel giro di due anni, non solo quella cinta muraria che divideva l’odierna capitale tedesca, ma anche l’intero blocco socialista, ponendo fine alla Guerra Fredda, e l’impianto ideologico su cui si montava un sistema di partiti in cui, la principale forza di opposizione, il Partito Comunista Italiano, guardava proprio a quell’Urss che nel ’91 ammainò la bandiera.
Ma quelle picconate non furono le sole a far crollare un sistema che fino a due decenni prima era ancora saldo e forte. Oltre ad esse, ce ne furono altre, metaforiche, rappresentate dal diffondersi di una narrazione antipolitica che sferzava attacchi sempre maggiori alle forze politiche che, sin dal dopoguerra, avevano popolato la scena politica italiana. Una narrazione antipolitica che era stata sempre presente nella storia italiana ma che dalla fine degli anni ’60 aveva iniziato a crescere sempre più, fino ad essere fatta propria, talvolta, anche da uomini delle stesse istituzioni. Uomini che, ricoprendo cariche politiche e istituzionali, criticavano quelle stesse istituzioni in cui sedevano, sfruttando una narrazione che li vedeva come in una sorta di infiltrati, entrati in politica per cambiarla, uomini soli contro tutti, all’interno del sistema per cambiarlo.
Un fenomeno che, nel corso degli ultimi decenni, si è visto più e più volte, ma che, tra gli anni ’80 e gli anni ’90, ebbe tra i suoi primi rappresentanti il presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Con le sue sferzate al sistema politico che, proprio sull’esempio dei colpi dati dai berlinesi al Muro di Berlino, furono chiamate “picconate”, contribuì a distruggere ancor di più la legittimità dei partiti politici e il consenso che ancora avevano.
Nominato capo dello Stato nel 1985, l’esponente sardo della Democrazia Cristiana era stato, in precedenza, presidente del Senato, del Consiglio dei Ministri, del Consiglio Europeo, oltre a vari incarichi come ministro, sottosegretario, deputato e senatore.
La prima parte della sua presidenza fu sostanzialmente svolta in maniera tradizionale, secondo quel che la Costituzione italiana affida al capo dello Stato: l’esercizio della funzione di perno delle istituzioni repubblicane e di arbitro nei rapporti tra i poteri statali. Ma fu con la caduta del Muro di Berlino che ebbe inizio la seconda fase del suo settennato, che vide Cossiga molto più protagonista: la fase delle “picconate” al sistema partitico.
“Picconate” ovviamente metaforiche motivate dall’idea che, con la fine della Guerra Fredda e della contrapposizione tra blocco capitalista occidentale e blocco socialista orientale, si sarebbe creato un grande cambiamento del sistema politico italiano che, proprio dalla rivalità tra i due blocchi, era nato. Secondo il presidente Cossiga, i principali partiti politici, specialmente Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, avevano subito pesanti ripercussioni dalla fine di quel sistema, senza, tuttavia, che fossero in grado di riconoscerlo e ammetterlo, bloccando così l’avvio di una nuova fase della politica. Di qui la necessità di “picconare” la partitocrazia, per dare il via ad un rinnovamento della politica. Un rinnovamento di cui si parlava e scriveva anche a Bitonto. Tanti, infatti, furono gli editoriali del “da Bitonto” in cui si invocava un sistema politico nuovo.
Per Cossiga, quello italiano, era un “sistema da cambiare, non da restaurare”, come disse nel ’91 in occasione della presentazione del libro intervista “Cossiga uomo solo” di Paolo Guzzanti, in cui si descriveva come «solo come politico: non ho dietro nessuno, né rappresentanza sociale, né grossi interessi economici, né grandi partiti». Un «profeta disarmato»
La prima delle pesanti ripercussioni, per il presidente, fu la fine della necessità dell’esclusione dei comunisti dal governo, per mantenere salda la posizione italiana nel blocco occidentale e nella Nato. Caduto il comunismo, quindi, non c’era più bisogno dell’anticomunismo. Cossiga, dunque, aveva già intuito che, di lì a breve, i protagonisti della Prima Repubblica avrebbero capitolato.
Nei due anni che separarono il crollo del Muro di Berlino dalla fine del suo settennato, il “presidente picconatore”, tra pesanti critiche e apprezzamenti di una parte consistente dell’opinione pubblica (tra cui alcuni esponenti del mondo dell’informazione e della televisione che, in più di un’occasione, fu veicolo della sempre crescente antipolitica), si lasciò andare ad una lunga serie di attacchi che non risparmiarono il suo stesso partito, la Dc. Se la prese con tutti gli esponenti della politica di allora, a partire dal segretario del Partito Socialista Bettino Craxi, accusato di qualunquismo, senza risparmiare De Mita, Andreotti, la magistratura.
E, anticipando di qualche anno l’antipolitica di Beppe Grillo, rinominò molti politici dell’epoca con sprezzanti nomignoli. Come “lo zombie con i baffi” per Achille Occhetto, ultimo segretario comunista e primo del Pds, o “il lepido di Nusco” per il democristiano Ciriaco De Mita.
Il suo mandato presidenziale finì nell’aprile ’92, con pochissimi mesi di anticipo rispetto alla fine naturale, prevista a luglio. A contribuire alla fine anticipata fu Andreotti, con la sua decisione, presa a ottobre del ‘90, di svelare l’esistenza dell’operazione Gladio, la struttura difensiva segreta della Nato, creata in Italia a partire dagli anni ‘50 per contenere l’avanzata del comunismo. Cossiga, infatti, ne aveva fatto parte e la notizia suscitò scandali e polemiche. Specialmente da parte dei comunisti che chiesero la messa in stato d’accusa di Cossiga per attentato alla Costituzione.