Il 9 maggio ’78 i proiettili di una pistola Walther Ppk cambiarono per sempre la storia d’Italia. Quel giorno, come tutti sappiamo, morì il presidente del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, nonché ex Presidente del Consiglio, Aldo Moro. Ma quel giorno non fu solo il politico salentino a morire. Il 9 maggio ’78 fu “la notte buia dello stato italiano”, “l’alba dei funerali di uno stato», come cantarono i Modena City Ramblers in “I cento Passi”, canzone dedicata a Peppino Impastato (e all’omonimo film di Marco Tullio Giordana), che con Moro condivise il giorno della morte.
Moro era stato rapito 55 giorni prima a Roma, in via Mario Fani, quando i militanti delle Brigate Rosse fecero quello che fu la loro azione più eclatante e più sanguinosa, uccidendo i cinque componenti della scorta dell’ex primo ministro, che in quel momento stava andando dalla propria abitazione a Palazzo Madama, dove si doveva presentare per ottenere la fiducia del Parlamento il IV Governo Andreotti, nato proprio su iniziativa di Moro che aveva spinto e trovato un primo coinvolgimento del Partito Comunista Italiano nella trattativa per la sua formazione.
Nell’attentato terroristico persero la vita due carabinieri e tre poliziotti, mentre Moro fu costretto a salire in una Fiat 132 verso quella che, per quasi due mesi, fu la sua prigione.
Il gruppo criminale era composto, secondo le ricostruzioni ufficiali, dai quattro brigatisti Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli, che spararono contro la scorta, da Barbara Balzerani, la stessa che due anni più tardi sparerà il colpo mortale contro il poliziotto bitontino Michele Tatulli, da Mario Moretti, Alvaro Lojacono, Alessio Casimirri e Germano Maccari.
La strage e il rapimento furono rivendicati due giorni dopo, proprio mentre si celebravano i funerali delle cinque vittime. Un comunicato redatto dalle Br così scrisse: «Giovedì 16 marzo, un nucleo armato delle Brigate rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. La sua scorta armata, composta da cinque agenti dei famigerati corpi speciali, è stata completamente annientata. Chi è Aldo Moro è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino a oggi il gerarca più autorevole, il teorico e lo stratega indiscusso di questo regime democristiano che da trenta anni opprime il popolo italiano. Ogni tappa che ha scandito la controrivoluzione imperialista di cui la Dc è stata artefice nel nostro Paese – dalle politiche sanguinarie degli anni Cinquanta alla svolta del centrosinistra fino ai giorni nostri con l’accordo a sei – ha avuto in Aldo Moro il padrino politico e l’esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste».
La prigionia di Moro fu accompagnata da una lunga trattativa che creò polemiche e spaccature tra le forze politiche del tempo e, più precisamente, tra chi voleva trattare e quanti, invece, si opposero perché non si poteva scendere a patti con i terroristi.
Il Pci di Enrico Berlinguer era per la linea della fermezza, contrario a trattare con i brigatisti. Una linea basata sull’idea che qualsiasi trattativa sarebbe stata un segnale di cedimento da parte dello Stato, con conseguenze potenzialmente gravissime. E forse, anche dalla volontà di manifestare lontananza dalle Br, dato che c’era, a destra, chi le considerava il braccio armato del Pci. Il Psi era spaccato: Sandro Pertini era per la fermezza, al contrario di Bettino Craxi. Per il dialogo erano anche i Radicali di Pannella. Nella Dc, l’ala di Fanfani era per il dialogo con i sequestratori, mentre quella di Andreotti e Cossiga, preponderante, fu contraria, nonostante lo stesso scudo crociato (ma anche il Pci), era stato favorevole, in passato, in occasione del sequestro del magistrato Mario Sossi, a trattare.
Moro fu assassinato e il suo cadavere fatto ritrovare nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, in via Michelangelo Caetani, alla stessa breve distanza sia dalla sede della Democrazia Cristiana sia da quella del Partito Comunista.
Il fine dei terroristi, infatti, fu colpire sia la Democrazia Cristiana, il capitalismo e lo stato italiano, sia il Partito Comunista, che si preparava ad inaugurare la stagione del compromesso storico voluta dal suo segretario Enrico Berlinguer. E proprio quel compromesso fu l’altro degli obiettivi dei brigatisti, che vedevano nel progetto di Berlinguer una svolta politica che avrebbe allontanato il Partito comunista da ogni prospettiva rivoluzionaria.
«Forse gli interpreti politici e intellettuali del caso Moro sono stati fuorviati dai nostri documenti, dalle nostre risoluzioni strategiche in cui, per ragioni di propaganda, entravamo nei dettagli della politica italiana, sembravamo interessati a tutti i suoi risvolti. In realtà eravamo molti più schematici. Per noi la Democrazia Cristiana era lo Stato che faceva parte del Sim, Stato imperialista delle multinazionali e il Partito comunista, il compromesso storico non erano che una delle forme, delle manovre di questo superpotere» raccontò Bonisoli in un’intervista a Repubblica
Le Br non erano i soli contrari al progetto. Il compromesso storico non piaceva a tanti. Non piaceva agli Stati Uniti, preoccupati dalla crescita di consensi del Pci e dall’eventualità di un suo ingresso nel governo italiano. E dal fatto che nessuno mettesse ormai più in dubbio la volontà dei comunisti italiani di agire secondo le regole democratiche, neanche ferventi anticomunisti come Indro Montanelli. Forse, non piaceva neanche a Mosca, che, sottolineano alcuni storici, fece di tutto per far fallire l’esperimento italiano, che avrebbe fatto saltare la politica sovietica e messo in crisi il suo assetto di potere basato sulla dittatura del partito e dei suoi leader.
Ed è proprio per queste dinamiche che ruotavano attorno al progetto di alleanza tra cattolici e comunisti, che sono sorte diverse teorie che provano a spiegare il caso Moro tirando in servizi segreti italiani, P2, Cia. Qualcun altro punta il dito contro il Kgb sovietico.
Teorie sempre smentite dai brigatisti, a partire da Mario Moretti: «Nonostante le ironie fatte, più volte, io non posso che ripetere: è storicamente dimostrato che Moro è roba nostra. È per quello che siamo stati condannati. Non c’entrano nulla la mafia, non c’entrano nulla i servizi segreti. Questi ultimi possono magari essere intervenuti, ma per manipolare i partiti e il parlamento, non certo noi».
La notizia della morte di Moro sconvolse l’Italia intera. Manifestazioni politiche di condanna verso le Br furono organizzate in ogni dove. Anche a Bitonto, dove, il 10 maggio, fu organizzato un grande corteo che sfilò per le vie centrali della città. Vi parteciparono in tanti, tra i bitontini. Una grande manifestazione in cui, come ricordò il professor Michele Giorgio in uno dei primi appuntamenti di questa rubrica, i giovani democristiani bitontini furono protagonisti, realizzando e distribuendo ai cittadini un documento in memoria dello statista e contro le Br. Di quella grande manifestazione rimane un’importantissima testimonianza video, tuttora visibile su Youtube, realizzata da Dino Verriello.
Con l’uccisione di Moro, quindi, fu uccisa anche l’alleanza politica tra Dc e Pci. Al posto di un governo con cattolici e comunisti, iniziò la stagione del Pentapartito, l’alleanza di tutti i partiti del panorama politico dell’epoca, ad esclusione del Pci. Una stagione che caratterizzò gli anni ’80 e che durò fino al ’92, quando i partiti politici furono travolti dalla crisi politica e dallo scandalo ‘Tangentopoli’. Fu ucciso un progetto di una nuova politica che provò a confrontarsi in un’Italia che, negli anni ’70, era profondamente cambiata, rispetto ai decenni precedenti. Potremmo addirittura dire che i proiettili che uccisero Moro furono il primo dei vari colpi fatali che contribuirono a distruggere la cosiddetta Prima Repubblica. Il primo. Ma, prima di Tangentopoli, altri ne seguirono.