«Dc, Psi (Nun te reggae più)
Dc, Pci (Nun te reggae più)
Pci, Psi, Pli, Pri,
Dc, Pci, Dc, Dc, Dc»
Era il 1978 quando Rino Gaetano cantò “Nuntereggae più”, brano inserito nel quarto album del cantautore crotonese. “Nontereggae più” non è solo una canzone simpatica, dai toni allegri, molto orecchiabile. È una vera e propria fotografia dell’epoca, di un periodo tra i più difficili della storia dell’Italia repubblicana, per tanti motivi che abbiamo avuto modo di vedere nel corso di questa rubrica. È la fotografia di un sentimento che, nell’opinione pubblica, a partire dagli anni ’70 e, in particolar modo, dagli ultimi anni di quel decennio, si fece sempre più largo. Un sentimento di disaffezione verso quei partiti su cui si reggeva il sistema politico italiano.
Non è, infatti, un caso che la canzone di Gaetano esca proprio nel ’78. Erano gli anni del compromesso storico, quel compromesso, voluto da Berlinguer e da Moro, per avviare una collaborazione di governo che, nell’ottica della prevenzione di una svolta autoritaria, avrebbe posto fine alla conventio ad excludendum verso il Pci, che, in termini di consensi, era il secondo partito italiano dal governo, ma che era escluso da coalizioni di governo per il rifiuto di Dc, Psdi, Psdi, Pli e Pri, di permettere ruoli governativi ad un partito che aveva forti legami con l’Unione Sovietica.
Erano gli anni in cui l’utopia sessantottina si spegneva definitivamente e al suo posto, le pistole P38 dei terroristi continuavano ad insanguinare le città italiane, arrivando persino ad uccidere Moro. Gli anni degli inviti all’austerity per affrontare la crisi economica che imperversava e che si sarebbe aggravata nuovamente con la crisi energetica del ’79. Anni di governi instabili.
Un clima politico e sociale pesante da cui si voleva fuggire. Non si sopportava più. Ed ecco che, ad essere respinti con il celebre “Nuntereggae più” furono simboli dell’italianità, personaggi dello sport di allora, date simbolo della storia italiana e tanto altro: «Il quindicidiciotto / il prosciuttocotto / il quarantotto / il sessantotto/ le pitrentotto / sulla spiaggia di Capocotta».
E ancora, personaggi dello spettacolo e imprenditori, precetti morali. E, soprattutto, la politica, con i suoi «ministri puliti, buffoni di corte, ladri di polli, super pensioni, ladri di stato e stupratori, il grasso ventre dei commendatori, diete politicizzate (riferimento a Pannella e ai suoi scioperi della fame, ndr), evasori legalizzati, auto blu». Con i suoi slogan e quelli che erano visti come privilegi, come l’immunità parlamentare, l’esempio scelto dal cantautore.
Dai versi della celebre canzone, traspare la sempre maggiore disaffezione verso i partiti che componevano il panorama sociale e politico di quel periodo, traspare l’insofferenza verso la politica, che si infiltrò profondamente nell’opinione pubblica italiana. II motivi di questa nuova ondata di antipolitica li abbiamo già visti. Volgeva al termine un decennio travagliato, in cui la società italiana aveva attraversato sconvolgimenti in termini economici, sociali e culturali, che avevano interrotto il ventennio glorioso della Repubblica dei partiti. Dal punto di vista economico, l’Italia, dopo un periodo di ininterrotta crescita economica senza precedenti, era divenuto un paese industriale avanzato. Ma, al tempo stesso, la centralità della fabbrica nell’economia era messa in discussione e con essa l’identità e l’orgoglio della classe operaia, fulcro del consenso verso i partiti di sinistra. L’inflazione, la depressione economica e l’acutizzarsi di tensioni economiche e sociali avevano interrotto quel periodo di crescita felice ma insostenibile. In campo sociale, invece, come abbiamo visto, negli anni precedenti ampi e radicali movimenti collettivi, talvolta, sfociarono in fenomeni di insubordinazione sociale. Movimenti che coinvolsero profondamente non solo la realtà italiana, ma anche l’intera Europa occidentale e gli Stati Uniti d’America, e che innestarono cambiamenti culturali non più reversibili. Elementi di crisi che perdurarono lungo tutto il decennio e si accumularono. Quel che entrò in crisi alla fine degli anni ’70 fu il compromesso sociale del liberalismo limitato, su cui si erano basate la stabilità e l’espansione del ventennio precedente, come scrisse Franco De Felice in “L’Italia Repubblicana. Nazione e sviluppo. Nazione e crisi”.
E, infatti, in molti Stati occidentali seguirà, nel decennio successivo, un periodo caratterizzato dall’avvento di formazioni conservatrici e liberiste, con il declino delle sinistre: negli Usa salirà alla Casa Bianca l’ultraliberista Ronald Reagan, mentre il Regno Unito, invece, sperimenterà gli anni di Margaret Thatcher. Anche in Francia, inoltre, la sinistra vivrà un doloroso travaglio. E l’Italia, alle prese con il fallimento del compromesso storico, non fece eccezione. In un clima di disimpegno e stemperamento delle tensioni sociali, gli anni ’80 vedranno farsi largo sempre più un’ideologia neoliberale e neoliberista sempre più ostile ai partiti, aprendo la strada alla grande slavina dei primi anni ’90.
Una crisi politica che, forse, se ci fosse stata una risposta forte del mondo politico, si sarebbe potuta evitare. Ma, a cavallo degli anni ’60 e ‘70, come sottolineò Pietro Scoppola in “La repubblica dei partiti”, il sistema politico italiano era sempre più debole, nelle condizioni meno idonee per affrontare una stagione di conflitti. Le proteste che avevano caratterizzato gli anni ’60 e ’70, infatti, traevano origine da nuove esigenze nate dallo sviluppo e dalle trasformazioni della società e chiedevamo un ampliamento della democrazia. Ma un sistema politico che si indeboliva non fu capace di rispondere in maniera tempestiva ai cambiamenti della società, come aveva notato, già nel ‘69, il politologo Giorgio Galli, che riferendosi al sistema bipartitico imperfetto italiano, parlò di “lentocrazia”, incapace di cogliere i rapidi sviluppi della società in atto. Anche perché, sempre citando Scoppola, nuove forme di aggregazione, che agivano talvolta a fianco, talvolta conto i partiti, avevano sconvolto le vecchie frontiere tra destra e sinistra, intaccando tutte le appartenenze di partito.
Visti come dei Golia ostili ai cambiamenti, ma forse solo troppo deboli per affrontarli, i partiti divennero oggetto di attacchi sempre più insistenti e, allo stesso tempo, iniziavano a subire una emorragia di consensi e di militanti che li fiaccherà sempre più. Divennero il bersaglio di una critica alla partitocrazia che nasceva da un pensiero trasversale, diffuso in area liberale, a destra, ma anche a sinistra. Un pensiero presente sin dal dopoguerra.
La diffidenza verso le organizzazioni partitiche, infatti, fu sempre presente, specialmente negli ambienti liberali, come dimostra il fatto che lo stesso termine “partitocrazia” fu coniato da un illustre esponente di quell’area, Roberto Lucifero, per essere poi diffuso dal giornalista Giuseppe Maranini, che in esso identificava uno «Stato nello Stato», riprendendo un’espressione usata dai nazionalisti e dai fascisti per delegittimare i socialisti. Maranini, lungi dal rivendicare la centralità del Parlamento, e riprendendo le teorie elitiste di Mosca, Michels e Pareto, tuonava contro la dittatura di assemblee elette con un criterio meramente quantitativo, vedendo nel sistema parlamentare un insieme di piccole clientele oligarchiche, che potevano facilmente piegare ai propri voleri le assemblee rappresentative. Una linea sposata anche dal periodico “Il Borghese” di Leo Longanesi, espressione dell’area culturale di destra, mentre il giornalista liberale Mario Pannunzio, già nel 1945, aveva paventato il rischio che gli uomini della nuova politica si trasformassero in una casta chiusa e altezzosa. A destra, una forte avversione alla partitocrazia fu manifestata anche da qualunquisti, monarchici e missini. E anche nell’estrema sinistra, forme di avversione al sistema partitico furono presenti, specialmente nella sinistra extraparlamentare e tra le organizzazioni dedite alla lotta armata.
Forza politica dai tratti antipartitici fu anche, come del resto abbiamo già avuto modo di vedere, il Partito Radicali, che non a caso fu, nel ’78, promotore del referendum per l’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti, di cui parleremo nel prossimo appuntamento. Referendum che fu il primo, vero attacco a quel sistema partitocentrico, a cui seguirono molti altri negli anni successivi, quando si diffuse sempre più un’opinione pubblica antipartitica e antipolitica, portata avanti, se pur partendo da basi culturali e motivazioni diverse, anche da nuove formazioni politiche come la Lega Nord, da giornalisti, conduttori ed esponenti politici (persino un presidente della Repubblica) che cavalcheranno quei sentimenti, spianando la strada alla crisi della Prima Repubblica e all’avvento della Seconda.
Come vedremo nel prossimo appuntamento, quell’attacco ai partiti che fu il referendum del ’78 fu respinto. Ma quell’opinione pubblica critica verso i partiti e quella sfiducia verso il sistema politico continuarono a crescere negli anni successivi. Anche nei contesti locali. Come vedremo con la nascita, di lì a qualche anno, del “da Bitonto” con i suoi spazi riservati alle opinioni dei cittadini. Non mancheranno, infatti, le denunce, da parte di osservatori politici o semplici cittadini, di una politica incapace di parlare «il linguaggio dell’uomo della strada», una politica opposta a quest’ultimo, incapace di affrontare i suoi problemi. Una politica che «marcia a rilento, abulica, sbuffante e ansimante, [che] crea nell’uomo della strada sfiducia e scarso ottimismo nella capacità della democrazia comunale a scommettere col futuro».