Il 20 e il 21 settembre 2020 furono le date dell’ultimo (finora) grande attacco al Parlamento. Furono, infatti, i giorni del referendum costituzionale per il taglio del numero dei parlamentari. “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari” è la dicitura corretta ed è stato il quarto referendum costituzionale nella storia della Repubblica Italiana, dopo quelle del 2001 sulla riforma del Titolo V della Costituzione, quello del 2006 per la modifica della seconda parte della Costituzione italiana e quello del 2016 voluto da Renzi e Boschi.
Abbiamo volutamente tenuto referendum come ultimo argomento, prima della chiusura della rubrica, in quanto è l’ultima tappa importante di un percorso, descritto ampiamente nel lungo corso di questa rubrica, che ha visto una grandissima avanzata del populismo e dell’antipolitica a scapito dei partiti politici e del loro luogo di discussione, il parlamento, che si è visto negli anni sempre più depotenziato a vantaggio del governo, privato di legittimità, raggio d’azione e potere di rappresentanza della popolazione.
Ma andiamo con ordine. L’idea di arrivare ad un referendum, per ridurre il numero dei parlamentari, nacque dall’accordo, sottoscritto nel 2018 da Movimento 5 Stelle e Lega, chiamato “Contratto per il governo del cambiamento“, quello che diede vita al governo Conte I, il governo gialloverde. L’accordo prevedeva, tra le altre cose, anche la drastica riduzione del numero dei parlamentari. Proposta poi portata avanti dal governo Conte II, insieme al Partito Democratico (inizialmente contrario).
Non fu la prima volta in cui, in Italia, si parlò di riduzione del numero dei parlamentari. La prima fu nel 1963, quando fu approvata la riforma costituzionale per modificare il numero dei deputati e dei senatori, di fatto riducendolo. Si arrivò, così a quei 630 deputati e 315 senatori che costituivano, fino al 2020, la totalità dei parlamentari. Con la legge costituzionale 2/1963, infatti, abbandonando il principio della variabilità del numero di membri delle Camere in base alla popolazione, si decise di fissare la quota di deputati a 630 e quella di senatori a 315, per un totale di 945, a cui si aggiungevano i senatori a vita. Si decide, poi, di uniformare la durata del mandato delle due Camere, portandolo, per entrambe, a 5 anni, in modo da far coincidere gli appuntamenti elettorali non solo di fatto, come era accaduto nel ’53 e nel 58, con lo scioglimento anticipato del Senato (che, in realtà, sarebbe dovuto durare 6 anni).
Torniamo a noi. Data prevista per il referendum fu, all’inizio, il 29 marzo, ma la pandemia da covid-19 rese necessario il rinvio al 20 e al 21 settembre. I mesi precedenti a quelle due date videro la formazione di due schieramenti. Quello dei favorevoli al taglio (M5s, Lega, Pd, FdI, Italexit) e quello dei contrari (Sinistra Italiana, Azione, +Europa, partito Socialista Italiano, Unione di Centro, Rifondazione Comunista). Alcuni partiti come Forza Italia, Articolo Uno e Azione lasciarono libertà di scelta ai propri elettori.
Anche a Bitonto fu acceso il dibattito tra chi puntava alla vittoria del sì per rendere più snello il processo decisionale e per rendere la politica meno onerosa dal punto di vista economico e chi vedeva quel taglio come un’inutile e pericolosa operazione populista volta a delegittimare ulteriormente il parlamento per dare più potere al governo e volta a ridurre la rappresentatività di diversi territori italiani.
Al Comitato per il “no” aderirono l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani, Left, associazione cittadina di promozione culturale, Nostra, comitato giovanile per il “no” al referendum costituzionale, il Coordinamento per la democrazia costituzionale e il Comitato Socialista per il “no”.
Per il fronte del sì, tra coloro che si attivarono di più, ci fu l’allora deputata Francesca Ruggiero (M5s) che, in un’intervista al Da Bitonto, sostenne il taglio per snellire le Camere e migliorarne il funzionamento: «Il nostro Paese ha il più alto numero di deputati e senatori, con un rapporto fra parlamentari e abitanti pari a 1/63.900 abitanti. In nessun’altra democrazia esiste una situazione del genere. È un’anomalia tutta italiana».
Ruggiero sostenne anche la necessità di risparmiare soldi che «potranno andare alla sanità, all’istruzione e alle infrastrutture» e negò la diminuzione della rappresentanza dei territori: «Nel corso della storia repubblicana si sono moltiplicate le espressioni democratiche. Basti pensare ai Consigli regionali, eletti dai cittadini dal 1970, e all’elezione diretta di Sindaco e Presidente di Regione, per citare solo gli esempi più significativi. Si tratta dunque di un’armonizzazione dell’architettura istituzionale che non inficia in alcun modo la rappresentanza dei territori. Nel dibattito si dimentica spesso che, accanto ai parlamentari, ci sono anche i consiglieri regionali e un’infinità di figure territoriali che dovrebbero garantire la presenza dei cittadini nelle istituzioni».
Analisi dietro cui il più delle volte si nascondeva un populismo antipolitico atto a ritrarre le due camere come luoghi di privilegi e costi inutili, come si poteva facilmente dedurre dallo slogan pentastellato “Vota sì per tagliare 345 poltrone”. Esiste termine più populista di “poltrone”?
Tra le voci più autorevoli del fronte per il no ci fu il professore universitario Nicola Colaianni, che accusava la riforma di partire dalla coda e non dalla testa: «Si tagliano i parlamentari in vista di un’eventuale riforma che poi, dovrebbe e potrebbe esserci. Per quanto io fui contrario alla riforma Renzi, almeno quella aveva un progetto, al contrario di questa. Non è vero che non legifera più il parlamento. È vero, invece, che viene continuamente depotenziato ed emarginato. Non è messo nelle condizioni di poter legiferare a causa dei tanti decreti governativi che tolgono tempo e risorse ai tanti progetti di legge in attesa di essere discussi dalle due camere. Inoltre, è la litigiosità tra le forze politiche che rende spesso inefficiente il lavoro del Parlamento, non il numero dei suoi esponenti».
Respingendo anche le argomentazioni sulla semplificazione del lavoro parlamentare a causa della nascita delle regioni, Colaianni sottolineò che «il nostro non è uno stato federale e su molte questioni le regioni non hanno alcun potere. Non è vero che, dal momento che esistono le regioni, il Parlamento governa di meno. Anzi, accade spesso il contrario, dal momento che, per molte materie, la competenza è concorrente. Rispetto al ’63, invece, la società è diventata più complessa e necessità di un maggior lavoro parlamentare rispetto al ’63. Non è vero che in tutte le regioni ci sarà lo stesso taglio. Considerando che ci sono territori che, essendo a statuto speciale, hanno di diritto dei loro parlamentari, in alcune regioni ci sarà un taglio ben superiore del 36%. Anche del 57%. Basti pensare alla Basilicata o all’Umbria. Molti territori, pur accorpandosi, non riusciranno a garantirsi una giusta rappresentanza. E, dovendo raggiungere un bacino più ampio, le campagne elettorali saranno più costose. Non si può tagliare nella speranza che, in futuro, ci sarà una riforma elettorale. Considerando che persino tra le forze di governo c’è litigiosità e che il Pd è contrario alle preferenze, c’è il rischio che dopo non ci sarà niente. È un salto nel vuoto, nel buio».
Diverse furono le iniziative organizzate per conto proprio dai due fronti opposti. Per il sì diversi gazebo informativi furono organizzati dai pentastellati bitontini. Per il no ci furono diversi momenti di incontro, in cui intervennero anche la professoressa Marina Calamo Specchia, Ciro D’Alessio (Fiom Cgil di bari).
Sia a livello nazionale che locale, vinse il sì, raggiungendo il 69,96% dei votanti, che furono il 51,12%. A Bitonto votarono in 26407 (59,61%). Stravinse il sì, con il 77,38%, mentre il fronte del no si dovette accontentare del 22,62%.
Con l’approvazione del referendum, il 19 ottobre 2020 il presidente della Repubblica Sergio Mattarella promulgò la legge costituzionale n.1/2020, che entrò in vigore il 5 novembre dello stesso anno. Ma per avere l’effettiva riduzione del numero dei parlamentari fu necessario attendere il 2022, con le elezioni politiche che diedero vita alla XIX legislatura del parlamento italiano.
A tre anni da quel referendum forse qualche bilancio si può tracciare. Perché, a fronte di risparmi del tutto irrisori, insignificanti, è molto più difficile per i territori e per le forze politiche eleggere propri rappresentanti. E le elezioni del 2022 lo hanno dimostrato.
Senza contare un altro dubbio che potrebbe sorgere in molti. Quanto tempo dovrà passare finchè il prossimo populista si alzerà per dire che anche l’attuale numero dei parlamentari è eccessivo? Perché, prima o poi, potrebbe succedere!