Ho vissuto in prima persona la nascita del Partito Democratico, condividendo quotidianamente con Romano Prodi e Arturo Parisi le ansie e le speranze di una nuova politica.
Oggi a dieci anni dalla sua nascita non posso tacere.
Il Pd nacque dalla convinzione che per cambiare il Paese occorreva cambiare la politica del Paese.
Un cambiamento fatto di nuove forme di partecipazione e animato dalla volontà di far convergere in una prospettiva comune le grandi tradizioni democratiche del ‘900, aprendosi anche a tutte le istanze di modernità provenienti da quella parte della società ad esse estranee.
All’Ulivo – humus in cui prese corpo il progetto del Pd – infatti, aderivano, attraverso centinaia di comitati, che io coordinavo a livello nazionale, moltissimi cittadini che non appartenevano a nessuno dei partiti che pure componevano l’alleanza.
Furono anni di grande entusiasmo che ci portarono a battere per due volte il centrodestra di Berlusconi e a piegare le resistenze al progetto, sotterranee ma tenaci, che fecero cadere il governo Prodi e che nascevano dalla volontà di non rimuovere l’assetto di potere dei singoli partiti.
A distanza di dieci anni da quella stagione, sento di poter dire che il Pd di oggi non è certamente quello che allora sognammo, sia perché quell’idea non sempre ha camminato su gambe adeguate, sia per due ragioni ben precise.
La prima: il progetto per sua stessa natura richiedeva da parte della classe dirigente un atteggiamento di apertura, di accoglienza e di continua armonizzazione delle diverse sensibilità. Una volontà di unire dunque, non solo proclamata, ma necessariamente tradotta in una organizzazione di partito idonea ad assecondare tutto questo con una struttura a rete sostenuta anche da circoli tematici. Invece il Pd ha sostanzialmente mantenuto la struttura dei vecchi partiti, fondata su tessere e sezioni, assolutamente inadatta ad interpretare il nuovo orizzonte.
La seconda è la sciagurata norma che fa coincidere il ruolo di segretario nazionale con quella di candidato premier, ad incomprensibile differenza di quanto previsto dallo statuto per i livelli locali nei quali sindaco e presidente di Regione non possono essere segretari comunali o regionali del partito.
Questo ha indotto i vari leader – nessuno escluso – a ritenere la segreteria uno strumento per la scalata al governo e non un impegno da profondere per promuovere un partito moderno e capace di sviluppare la sua vocazione in ossequio ai suoi principi fondativi.
Il partito è stato dunque abbandonato a se stesso con scarsa capacità attrattiva e con la tendenza a chiudersi nei confronti di una società in continua evoluzione.
Queste ragioni hanno contribuito da un lato al fenomeno ormai macroscopico delle liste civiche, dall’altro alla crescita di movimenti antisistema.
Che fare? Non certo abbandonare la nave!
Non serve, se non forse alla sopravvivenza di un ceto politico.
L’unica risposta è continuare a lottare per il Pd che abbiamo sempre voluto, per una grande idea che fatica a trovare piena realizzazione, ma che rimane una prospettiva recuperabile, anche davanti alle macerie che ci circondano, nella consapevolezza che i cambiamenti veri la storia non li partorisce facilmente.
In un tempo in cui alla politica manca tensione e profezia è l’unica strada che ancora riesce a dare un senso al proprio impegno.
Giovanni Procacci