Una commistione armonica
ed equilibrata di canto, musica e recitazione. È in un’atmosfera del genere che
domenica scorsa Federico Buffa,
giornalista e telecronista sportivo, ha intrattenuto il pubblico del Teatro Traetta di Bitonto, formato per
gran parte da giovani. Con il suo consueto stile
concitato e incalzante, insaporito da un carisma calamitante, Buffa ha
rievocato con lo spettacolo “Le Olimpiadi del ‘36” l’atmosfera
politica, culturale e sociale che si respirava nei turbolenti anni ’30. Assieme
naturalmente alle esperienze di chi, quelle olimpiadi, le ha vissute e vinte in
prima persona. E di chi ha saputo ritrovare nello sport il riscatto in un periodo
drammatico, in cui nazionalismo, propaganda e razzismo si saldavano in una
morsa mortale per ogni tipo di libertà e diritto civile.
A diluire le parole di
Buffa (che a dir la verità, forse per un’imprecisa gestione dei tecnici audio,
veniva talvolta coperto dalla musica) in un impasto melodico che si sposava
armoniosamente con la narrazione, c’erano le note della fisarmonica di Nadio Marenco, alternate con il pianoforte
suonato da Alessandro Nidi. A
coronare il quartetto, che si scioglieva e ricomponeva secondo diverse
combinazioni nel corso dello spettacolo, la voce della cantante Cecilia Gragnani, che ha ricreato
musicalmente l’atmosfera culturale degli anni ’30, intonando canzoni
dell’epoca. Ai diversi linguaggi teatrali sfoggiati durante la rappresentazione,
non potevano mancare le immagini,
gran parte delle quali girate da Leni
Riefenstahl, celebre regista di film e documentari che celebrarono il
nazismo. È a lei che il führer commissionò la realizzazione di un vero e
proprio documentario che esaltasse in pompa magna le olimpiadi tedesche del
1936. Ed è sempre a lei che Buffa fa riferimento nel suo spettacolo,
trasformandola in una colonna portante imprescindibile della narrazione.
Così, la regia di Emilio Russo,Paolo Frusca e Jvan Sica ha ricreato, in un dolce equilibrio di registri teatrali,
quella manifestazione sportiva, palcoscenico mondiale per le storie di atleti
drammatici, che hanno trascinato fin sul podio la tragedia umana e personale di
un periodo buio. Due sono in particolare le storie che Buffa ha fatto brillare nel
tessuto narrativo del suo spettacolo: quella di Jesse Owens e Sohn Kee-chung. La prima, forse più conosciuta della seconda, è la vicenda di un atleta
statunitense di pelle nera che vinse 4 medaglie d’oro in quella che era la
patria del razzismo e del nazismo europeo. L’altra storia invece riguarda
quella di un maratoneta coreano che correva con la maglia del Giappone, dominatore
in quel periodo della penisola di Corea. Altro personaggio drammatico,
rievocato nel gesto di non esultare al momento della premiazione, Sohn Kee-chung
è forse l’elemento inaspettato, meno noto e perciò più accattivante e riuscito della
narrazione di Buffa. Racconto sempre imbevuto di elementi attinti dalla
biografia, in cui storia, vicende personali, record sportivi si mescolano in
una soluzione perfetta e seducente.
Il
tutto è impreziosito dalla poesia, che irrompe in scena sia con le
parole di Buffa che con versi proiettati sullo schermo. Ad un certo punto dello
spettacolo ecco comparire le seguenti parole:
“Prima
di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto,
perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui
sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi
niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non era rimasto
nessuno a protestare.”
Un
riferimento, forse non troppo velato,ai nostri tempi, in cui apatìa
politica, paura del diverso e indifferenza possono amalgamarsi in un composto
pericoloso. Pericoloso come ai tempi delle Olimpiadi del ’36.