Forse bisogna
chiamarsi Stefano per sognare di diventare un giorno Pietro Mennea.
Una piccola e, perché no?, puerile riprova l’abbiamo avuta sabato sera nel fascinoso ipogeo dell’Ancaranus,
locale incastonato nel centro storico, di fronte al Teatro.
Ce n’erano due con
quel nome: Laforgia e Savelli, i loro cognomi.
Il primo aveva
barbetta leggera come uno di quegli atleti che correvano negli stadi
dell’antica Grecia cantati da Pindaro, occhi chiari ed un sogno perduto chissà
in quale angolo del cuore.
Il secondo, viso
affilato e sguardo acuto dietro occhiali grandi grandi appesi su un corpo
mingherlino.
Stefano Laforgia faceva ancora il liceo scientifico
quando incontrò un prof di educazione
fisica, Franco Degennaro, che riconobbe in lui una piccola freccia
inafferrabile. Le prime sfide, i campionati studenteschi, i crono strabilianti.
Stefano, pian piano, ci crede.
I cento metri, mezzo
giro di pista, i crucci dell’anima ai blocchi di partenza, l’ansia e l’emozione
del vento che ti entra dentro mentre batti tutti, persino te stesso.
Altro che le
versioni di latino e quella prof sempre troppo severa.
Poi, un brutto
giorno, uno stiramento subdolo e un’ernia del disco allontanano per sempre un
traguardo che sembrava tanto luminoso quanto annunciato…
Stefano Savella era un bambino quando tra le strade
assolate di Barletta giocava con gli amici e, se qualcuno su quell’asfalto
polveroso era più veloce degli altri, gli gridavano in rigoroso vernacolo: “E chi credi di essere? Mennea?”.
Poi, si fece grande
coltivando il dono della scrittura, perspicua e non arzigogolata.
Divenne giornalista
e prese a battersi per la pista dello storico stadio comunale della sua città,
il Cosimo
Puttilli, che rischiava di essere distrutta.
Lo fece anche in
nome del suo celebre concittadino Pietro.
E riuscì a salvare
l’anello.
Quando lo sprinter,
un Usain Bolt bianco avanti lettera,
fu rapito da una crudele non meno che lunga malattia, decise di dedicargli un
libro che riassumesse la di lui vita, ma pure quella di tutti: “Soffri
ma sogni”, il titolo emblematico di quest’agile e interessante libro,
pubblicato dalla Stilo editrice e intriso di passione…
Proprio l’altra sera
il klinàmen epicureo ha voluto che i due Stefano si incontrassero
E mentre lo
scrittore – pungolato dalla gioia bambina del libraio Gianluca Rossiello, che come tanti ragazzi di quarant’anni adorò quello
sprinter stortignaccolo e pertinace, accompagnato dall’assessore allo sport Domenico Nacci, che non poteva non
sottolineare le difficoltà di un amministratore del meridione, che deve fare i
conti con le strutture scarse e le risorse ancor di più, e sorretto dal senatore Giovanni Procacci che di
Mennea fu collega all’europarlamento e ne ricordava la semplicità e la
determinazione – ripercorreva le tappe, le vittorie, i record italiani, europei
e mondiali, i successi politici e universitari, ma pure i deludenti scorni del
campione, il giovane studente già troppo presto ex velocista anticipava ogni
singolo aneddoto, manco fossero ad una segreta liturgia della memoria, che solo
loro due avevano il privilegio di conoscere…
Già, ora Mennea
Pietro da Barletta non c’è più. È volato via. Velocemente.
Spigoloso e scomodo
in vita, è stato più semplice per gli ipocriti potenti dello sport, CONI incluso, rendergli
facili omaggi postumi.
Ma non sanno,
costoro, che chi è stato grande nella disciplina più pura del mondo – sì, ieri
lo era, sì, oggi chissà… – resta un esempio da seguire sempre per chi l’abbia
ammirato con cuore pure.
E restano (alla facciaccia loro, degli ipocriti
potenti dello sport, vogliamo dire) un libro scritto con pugno emozionato ed
una foto sul cell – il maestro Carlo Vittori in vespa e l’allievo Pietro che
graffia nell’aria il gesto rabbioso – quali piccoli, incrollabili, eterni
monumenti di un amore vero che non finirà mai…