Chi è stato solo al comando, resta solo anche al
momento dell’addio.
Vinceva ed aveva sempre una ruga di fosca malinconia
a lacerargli il sorriso, Marco Pantani.
Passava sotto lo striscione del traguardo sospeso tra picchi scarni o erbosi, allargava
le braccia come se tornasse nel grembo di Madre Natura e si concedeva un fugace
battito di mani, quasi fossero ali che, ogni volta, afferravano un pezzettino
di sogno.
Era un italiano atipico e questo scatenava l’invidia
di chi non ce la faceva. Quando ti aspettavi che avrebbe attaccato, lui attaccava,
quale che fosse il meteo che Giove Pluvio rovesciava sull’orbe terracqueo.
Era un piccolo gigante che scriveva liriche sublimi en danseuse sui pedali, dinanzi alle
montagne sterminate tra le nuvole.
Perché l’infinito si nutre d’infinito.
Quando cadeva e ti aspettavi che non rinascesse, lui
tornava vittorioso.
Attraversava distese di “torrida tristezza” e,
intanto, era leader carismatico e silenzioso del gruppo.
Non poteva sapere che due sono gli sport prediletti
dei suoi compatrioti: salire abilmente sul carro del vincitore e scendervi
rapidamente quando l’alloro rovina giù dal capo di chi vinceva.
Un Giro e un Tour nel breve torno di pochi mesi, come solo i grandi
avevano saputo fare. E allora tutti lo volevano, tutti lo cercavano.
Era una macchina di danaro. Che, è bene rimarcarlo,
divideva equamente sempre con tutti i suoi gregari.
Poi, venne Madonna di Campiglio ’99 e l’ematocrito a 52.
Rischio di trombosi, fine della corsa.
Forse aveva ragione Goffredo Parise quando, introducendo i suoi splendidi Sillabari, scriveva
che la poesia è come l’amore, quando finisce non c’è più niente da fare. Più nulla
si rianima.
Marco rimonta sui pedali, ma intanto gli amici
luciferini lo avevano condotto sulla via non certo retta. Pazze notti in discoteca e cose orrende da trangugiare.
Compare nel mondo della pedivella a singhiozzo, come
un pianto finale.
In discesa dal Sempeyre nel 2003, ridotto a coequipierdi Garzelli, Pantani tonfa giù, si siede sopra una pietra (messa lì proprio per
raccogliere le sue lacrime?) e vede scorrere tutta la sua vita fra le dita
tremanti, che chiudono il suo volto ferito mortalmente.
Nonno Sotero e la prima bici, i successi da dilettante
con la Giacobazzi e quelli da professionista fra Carrera e Mercatone Uno (36,
meno di quanti ne mieteva il Cannibale Merckx in una stagione sola, ma vuoi
mettere lo strapotere col sogno?), una frattura di polso e clavicola, due traumi cranici, un metatarso
sbriciolato, due costole incrinate, otto punti ad un ginocchio, una spalla lussata,
lo schiacciamento di due vertebre lombari (ah, micio assassino), una lesione al
menisco, una frattura di tibia e perone con frantumi d’ossa un po’ ovunque (quel
maledetto suv contromano alla Milano-Torino), i tifosi che gli urlano contro “dopato
di merda” quando nulla era stato davvero provato…
Lì, su quel masso troppo simile ad una lapide, sembrava
voler gridare al mondo ungarettianamente “lasciatemi qui, come una cosa
abbandonata in un angolo e dimenticata”.
Già, proprio lui che era stato “un grido unanime, un
grumo di sogni”.
Questo è il calvario di Marco che molti hanno
dimenticato nello spazio di un mattino, di quel mattino a Madonna di Campiglio,
quando la tappa partì e avanzò a passo di lutto.
E nessuno ha mai compreso perché un altro grimpeur invisibile come Charly Gaul era scomparso in una foresta lussemburghese,
immerso in un voluto isolamento straziante, e l’unico che andava a trovarlo era
proprio Marco. E l’ultima uscita pubblica di Gaul prima di morire è stata proprio in occasione
del funerale del Pirata.
Purtroppo, nella vita ci sono discese molto più impervie delle
salite.
Quando tutto rotola ripido verso la fine della strada, anche chi, come lui, che pareva
saper precipitare senza perdersi – s’era sempre lanciato “a tomba aperta” con quella postura curiosa ad uovo, glutei fuori dal sellino e busto tutto proteso a fendere l’aria –, si smarrisce nella notte del cuore.
Quel cuore lì, che non aveva bisogno di cardiofrequenzimetro, perché Marco lo buttava dopo un paio di allenamenti.
Il giorno di San Valentino di nove anni fa (dì d’amore, tra l’altro, doloroso simbolo), in uno
squallido residence riminese, per Pantani, riverso sul letto con pasticche bastarde e sangue
raggrumito in bocca, è calato il sipario.
E’ arrivata pure per lui la “dama dai denti verdi”.
E l’ha sorpreso solo, come quando vinceva.
Voleva trovare un senso alla sua vita, lo scalatore
impavido, lui che aveva donato sogni a grandi e piccini e che aveva persino
dato una speranza a chi era rimasto menomato da un incidente o da un handicap.
Vasco canta con voce graffiata che il domani arriva lo
stesso.
Ma per Marco che è morto (o è stato ucciso? E se sì,
da chi? Da chi lo ha abbandonato? O da sé stesso? Dalla complessità della sua
anima?) l’eternità del mito è il suo domani.
È il ricordo commosso e grintoso di Luigi de Blasi (apparso sull’impiantito con la coppiana casacca biancazzurra della Bianchi), che l’altra sera al
Teatro Traetta ha portato in scena la favola nera di Pantadattilo, nuovo nome di
battesimo coniato dall’immenso Gianni
Mura.
Le parole melodiose dell’angelo custode (Francesco
Mitolo).
L’amore disperato di mamma Tonina e quello che poteva
essere salvifico e non lo fu di Kristina (Francesca Marinelli e Margherita Castro).
Il silenzio
terribile e ad un tempo impotente dei suoi avversari (Antonio Punzi).
Minuscola postilla.
No, cari Gigi, Francesco, Francesca, Margherita, Antonio e Romina (Bisceglie, la presentatrice) non abbiate pudore nel confessare che la vostra narrazione è stata apologetica.
Avete semplicemente gettato il cardiofrequenzimetro.
Abbiamo le tasche piene di chi calcola pure i segreti palpiti del muscolo più martoriato dell’uomo.
Sì, a noi è sembrata una dichiarazione d’amore. E l’amore non ha bisogno di giustificazioni.
E’ e basta.
Infatti, le note prima
esaltanti e poi dolenti delle canzoni pensate dal succitato de Blasi, anima
della Garbo teatrale, hanno raccontato l’esistenza tragica di Pantani e, massime, tutto il
folle trasporto di chi lo ha ammirato davvero.
Questo, in
fondo, è il domani di Pantani.
E, se appena ci
intendiamo di epos, abbiamo la vaga sensazione che non avrà mai fine…