Il 12 e il 13 gennaio Mimmo Mancini e l’attore barese Paolo De Vita porteranno al Teatro Traetta lo spettacolo “Non chiamateli briganti”. Il tema di fondo sarà il brigantaggio negli anni dell’unificazione italiana. Soprattutto quello pugliese, come spiega Mancini, convinto che «è necessario guardare al nostro passato per comprendere il presente e abbracciare il futuro. E credo che del Risorgimento ci sia ancora tanto da dire».
La storia ha come protagonisti i due fratelli Capitoni, un contadino e pastore, diventati briganti per necessità e per un’ingiustizia subita. La sceneggiatura si avvale della regia di Marcello Cotugno e della consulenza storica di Valentino Romano, autore di diverse pubblicazioni sul tema del brigantaggio, e tra i più autorevoli storici sull’argomento.
«È importante parlare – sottolinea Romano – non tanto del brigantaggio in sé. È importante analizzare la natura e le cause del dissenso contadino che furono alla base del brigantaggio. Perché prima di parlare del fenomeno in sé, bisogna parlare di insorgenza contadina, quella confusa, anarcoide ma consistente rivolta dei contadini, determinata da condizioni di malessere e disagio del ceto proletario contadino, che esistevano già prima dell’Unità e dello sbarco di Garibaldi, e soprattutto alla mancanza di risposte da parte del ceto dominante e della borghesia agraria alla richiesta di terra avanzata dai contadini. Richiesta che non era ansia di possesso, ma di riconoscimento del diritto all’uso delle terre, dei demani pubblici, all’uso civico. Fine ultimo era il diritto ad una vita dignitosa. Periodi di turbolenza ci furono già prima, per tutto il XIX secolo, ma con le lotte per l’Unità d’Italia ci fu una grande aspettative. Basti pensare al brigantaggio calabrese. I contadini insorgono in tutta la Calabria al grido di “Viva Vittorio Emanuele, Viva Garibaldi”, in quanto ai contadini era stato promesso proprio quel che chiedevano, la terra. Nel momento in cui quelle promesse vennero disattese dalle classi dominanti, dalle borghesie locali, scoppiò la ribellione. È importante capire questo, perché altrimenti si ha una percezione distorta del brigantaggio, come se fosse solo un problema di delinquenza oppure come una rivolta ideologica, partigiana, che sarebbe vero solo in parte. Capire tutto ciò significa anche comprendere i meccanismi che hanno accompagnato gli oltre 150 anni di storia d’Italia e del Mezzogiorno».
Una lotta, secondo l’analisi di Romano, che quindi vede nella volontà di emancipazione delle classi più deboli una delle sue cause principali, specialmente dopo che il cambiamento apportato dall’unificazione si rivelerà gattopardesco.
Oltre a Valentino Romano, ha affiancato il lavoro di Mimmo Mancini anche il giornalista Marino Pagano, che, sulla stessa linea di Romano, spiega il senso del portare sul palco di un teatro un capitolo di storia ancora discusso: «Un’esperienza interessante quella di unire il dato di ricerca storiografico alle necessità precise di una narrazione teatrale. Ringrazio l’amico Mimmo Mancini per questa felice e interessante opportunità. Raccordarmi poi con l’altrettanto amico Valentino Romano pure ha avuto il suo significato: si tratta di uno storico coi fiocchi, autore di diverse pubblicazioni sui temi relativi non solo al Brigantaggio postunitario in sé quanto alla sempre più necessaria revisione del fenomeno risorgimentale nel suo complesso. Si tratta, dunque, di un’opera utile a percepire e toccare con mano le ragioni antropologiche, sociali e sociologiche di ciò che agita la grande storia nelle retrovie della storia e delle esistenze stesse. Un lavoro senza pretese di riscrittura delle vicende o di adesione ad alcuno dei filoni storici o ideologici, di esaltazione o critica che sia rispetto ai fatti. Si preferisce appunto, con l’espediente del sorriso, focalizzarsi sulla sofferenza degli uomini che vissero quel tempo, degli uomini meridionali (senza inutili scontri Nord-Sud), non senza un poco velato gusto retroamaro rispetto alle debolezze ataviche di un certo modo di ragionare, quello sì, come la storia dice, “italiano”. Il testo in pratica ci fa capire quanto c’era da lavorare di più e meglio per farli, questi “italiani”: colpe e vizi d’origine che scontiamo ancora oggi».