La nostra città negli scorsi giorni ha avuto il grande privilegio di vedere, sul palco del Teatro Traetta, un grande scrittore, giornalista, archeologo, docente quale Valerio Massimo Manfredi.
L’autore è stato accolto calorosamente da molti giovani ragazzi affascinati dalla sua penna e dal suo racconto del mitico eroe epico Ulisse narrato nel suo romanzo “Il mio nome è nessuno”.
Un laborioso lavoro che ha seguito la vicenda omerica dalla prima infanzia, passando per la giovinezza, la trasformazione del guerriero, la guerra sotto le mura di Troia, i mille amori, il lunghissimo nòstos – il ritorno ad Itaca – tra mille insidie e incontri straordinari.
Così, come i tamburi di guerra, sono state incalzanti le domande della prof. Raffaella Pice, che ha moderato l’incontro spaziando dai riferimenti danteschi a quelli di Foscolo, Joyce, Saba e di alcuni studenti incuriositi dall’avventura che loro stessi stavano vivendo.
Il baricentro del racconto, il ritorno a casa di Ulisse, narrato e rivisto in chiave prosastica dal Manfredi, diventa la chiave della vita: ogni attimo diventa prezioso e insostituibile.
Il viaggio diventa metafora dell’intera umanità fatta di sogni, agonie, felicità e angosce. Ogni giorno, ogni luce ed ogni ombra assumono un significato perché sappiamo di dover morire.
Rifiuta così l’immortalità da Calipso perché quello che desiderava più di ogni cosa, nonostante il tempo passato, era rivedere i volti dei cari.
Gli autori, citati dalla docente Pice, si sono riconosciuti nell’opera omerica in un momento di grande risorgimento culturale sia italiano che greco: il Laerziade diventava specchio degli uomini d’ogni tempo che a loro modo rimanevano unici ed irripetibili.
Il racconto epico, fatto di pieghe e racconti contratti, incontra la penna tempestosa come il mare di Poseidone, poetica come quella delle sirene di Valerio Massimo Manfredi e diventa retta tra i due punti, d’inizio e fine, dell’epica come della vita.
E allora sorge spontaneo ricordare e domandarsi il titolo dell’opera.
Il riferimento, chiaramente, è all’episodio con Polifemo che chiede all’eroe il suo nome: “Mi chiamo Oudeis”, che nell’antico greco significa nessuno.
È quello l’immenso inganno di Ulisse, abile macchinatore e uomo polytropos – dal multiforme ingegno -, e dunque noi chi siamo?
Tutti siamo Ulisse.
Con le nostre paure, le nostre codardie, cavalli di Troia di noi stessi.
Nessuno.