Sotto
mano capitano tante cose. Carta, quanta carta.
Dal
più qualunquista del dire scontato e prevedibile alle menzogne, persino
l’ignoranza è di carta. Quante chiacchiere.
Quanti
romanzi, con la scusa della vendita facile, sottoprezzo, alla cassa dell’Autogrill.
Inarrestabile profluvio di produzioni buone per la lettura del weekend al
solleone, ma degne poi del più triste dimenticatoio.
Poi.
Poi ti accorgi che Clemente Rebora, per dire (anzi, per ascoltare), scelse il silenzio.
Clemente Rebora, mica il maresciallo dei carabinieri che a momenti vince il
Nobel per la letteratura.
Tutti
i più grandi hanno attraversato momenti di fertile afasia, profusione di pausa
ispirata. Anche ora ci sarebbe bisogno di ritrovarsi.
Ci
vorrebbe il silenzio. E il silenzio non è mai mutismo.
È
parola calibrata, che ascolta e confessa sofferenze ma anche felicità, forse. Felicità
di pensiero, non d’effimero.
Ecco,
l’introduzione è di quelle lunghe per dire che a Bitonto abbiamo una
gentildonna del pensiero, una materna e creativa -dunque poetica- signora delle
lettere. Il suo nome è Angela De Leo. Non si sfugge da questa verità.
Non
si tratta di fare gerarchie spicciole, ma di dire la verità e noi avvertiamo
ferrea quest’esigenza: la De Leo segna un confine tra letteratura tanto per
dire (e, ahinoi, per scrivere) e vita intesa essenzialmente come testimonianza
scritta di un afflato di pensiero.
Di
una letteratura che, davvero, nel solco dei maestri del primo ‘900, è “vita”.
Dopo
tante storie, dopo tante poesie e convincenti racconti, ecco adesso “La via
delle vedove” (Secop edizioni), un romanzo di una donna ferita del Mezzogiorno
ferito, donna che viene da una storia antica.
Storia
cui ritorna, con tutto il dolore. È il tema classico del ritrovarsi là dove
tutto è cominciato: alle origini. La protagonista dell’intreccio, a forti tinte
autobiografiche, nell’età in cui il fisico sembra non reggere più come prima,
negli attimi dominati dalla paura di invecchiare e di cedere, corre, corre
indietro sui suoi passi.
Torna
al mondo fondante dell’infanzia e della giovinezza.
Ed
è qui che il romanzo mette in crisi chi legge. Sì, perché di solito siamo
abituati ai cantori del tempo andato. Chi scrive questo pezzo, per primo, cerca
rifugio culturale, un approdo, ancora oggi (lui-io, nato in quel 1980 che fu
già l’abbraccio al 2000 e l’addio al ‘900), nella dimensione dei paesi, del
meravigliosamente andato, della crepa, del fornaio, della viuzza in salita, tra
chianche e fili d’erba selvaggi.
Quasi
alla ricerca del piccolo paradiso da assaporare, lasciando però al destino di
solitudine chi lì vive e resta.
Ecco,
la convinzione è sempre stata quella che, no, non fosse solitudine: solo vita
comunitaria. Nessuna perfezione angelica, per carità. L’uomo è essere spesso
rude. Ma certo uno crede che, nel piccolo mondo antico degli spazi per forza di
cose comuni, ci fosse e ci sia un argine all’individualismo moderno, così
amorfo e atomistico. E forse è così.
Oggi,
magari. Come oasi e forma di resistenza. Perché, prima, i paesi, per chi ci
viveva, erano spesso anche claustrofobici spazi di condanna e marchio.
Ce
lo ricorda, Angela. Lo ricorda persino a quel sé di donna lesa nell’animo e però
forte. Il sorriso di Angela non dice granitiche certezze d’ilarità, dice la
sensibilità di una persona che sa.
E
così, finisci per capire e rispettare quel dolore di donna. Ti viene quasi da
prendere in mano questo libro con tatto estremo, come sull’orlo di una
straziante reliquia che viene da lontano e che, da lontano, dice di sé.
Perché
raccontare è un po’ soffrire, morire.
Ma
si rinasce. Angela-Eva rinasce. Rinasce alla fine, perché è solo dalla macerie
che si può ricostruire, come la De Leo ci ricorda citando il pittore Anselm
Kiefer. Eva è il nome della protagonista della storia.
Come
non pensare, dunque, anche a questo nominalismo ossimorico tra chi scrive e
personaggio: Angela-Eva. Santità e peccato.
Perché
il male è davvero dentro di noi, così come il bene del sorriso. Sorriso
gravido. Dunque, rispetti. Rispetti tutto.
Anche
quel che, appunto, ti mette in crisi. Anche quello che, storiograficamente, non
condividi (o magari leggi diversamente) rispetto a quel che Angela racconta, in
realtà accenna.
Ma
prima osservi quei paesi del Sud assolato e sofferente, i paesi di quel Salento
(ma c’è anche il barese, con l’accenno al “paese a nord di Bari” da cui viene
Eva) profondo dalle vesti nere delle donne alte e magre, magistralmente
indagate dall’antropologo Ernesto de Martino; i paesi di donne che, pur
avendolo vicino, spesso non vedevano mai il mare; paesi ossessivi, cupi e
abbacinanti insieme; paesi di donne che dimostravano almeno il doppio dell’età
biologica che avevano.
Un
Sud che veniva da sette-ottocentesche situazioni di disagio sociale che erano
comuni a tutta l’Europa, in cui non si viveva bene in nessun luogo: Charles
Dickens insegna.
Anzi,
noi venivamo da una situazione per nulla imbarazzante, con una serie di primati
politici, sociali e culturali che ancora oggi sarebbe bene riportare alla luce.
Ma le periferie geografiche ed esistenziali esistevano eccome, senza dubbio. Soprattutto
nella Puglia lontana dalla capitale napoletana.
Ti
chiedi, poi, pur nella desolazione per certi aspetti figlia del tempo, se quel
carico di sofferenze taciute e accettate fatalisticamente –di cui tanto parla
Angela- non sia solo una parte della verità.
Perché
esistono tante memorie e alcune, vivaddio, conservano ancora la gioia di quel
mitico vivere comunitario che oggi si è completamente perso: un vivere in cui,
talvolta, si finiva anche col volersi bene.
All’ancestrale
vita controllata di allora, è subentrata l’anomica realtà quotidiana dei tempi
successivi alla “Rivoluzione”: come sempre, l’uomo difficilmente conosce la
retta via. E la modernità, anch’essa, crolla.
Ha
detto, con riferimento certo alle sue Langhe, Cesare Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il
gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella
gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci
sei resta ad aspettarti”.
In
più, il Salento è davvero terra di rimorsi e pianti e canti.
Terra
particolare, luttuosamente atavica e primordiale. L’asfissiante sole portava
più alla sfiancante dimensione campestre del lavoro del tabacco che al gaudente
assaggio marino, pur lì a due passi. Un sole offuscante.
La
Terra di Bari era già più industriosa e “occidentale”. La Basilicata e
l’Irpinia vivevano (e vivono) una dimensione d’isolamento, sì, ma meno
ossessiva.
Lì
i terremoti d’Appennino hanno sempre spinto la gente ad agire, pur in una
dimensione premoderna, ma certo meno rassegnata e desolata rispetto al tacito
scorrere della vita dei paesi salentini.
Un
romanzo autobiografico, quello di Angela De Leo, finisce così per diventare un
ritratto sociologico sulle generazioni che passano, sui paesi che restano, con intuibili strascichi.
Dimenticavamo:
il lirismo. È un romanzo scritto benissimo, con tratti e picchi di acuto e
intenso fascino. Per la scelta semantica, per l’accostamento di immagini, per
il cuore che ne traspare.
Il
cuore è un cuore di donna. Perché, appunto, Angela-Eva non è un ossimoro. È
bene e male. Ma il bene e il male (o, se si preferisce, il giusto e l’ingiusto)
di tutte le nostre vite. Il bene e il male di una persona semplice e magnifica.
“Dove erano finiti quei volti frazionati in
tanti volti diversi eppur sempre ricomposti nello stesso volto, il suo?”.
Tanti
volti in uno: il suo, quello della narratrice-protagonista.
Memorie
nella memoria. Storie nella storia affidata al racconto che illustra come
quadro il tempo che fu.
C’è
da dire che Angela ha un cuore grande. E si vede, si legge.
Si
ama, persino. Con ascolto e sospensione: “Tutto
è silenzio del tempo finito”.