Mario,
amico mio. Scusa, adesso, tu (traduzione dal vernacolo pretto e
autoctono).
Ti avevo assicurato un pezzo breve sul 17 marzo, sulla Festa dell’Unità d’Italia (mah: “Festa dell’Unità”! E che si vince, un prosciutto?), ma in realtà me ne ero stato cheto cheto. Silente.
Pensavo: e che ci sarà mai più da dire?! Grazie al cielo, la storia sta
facendo i conti con la storia stessa.
Di Risorgimento non si parla più alla maniera deamicisiana, incantata,
solennemente e bolsamente celebrativa. Abbiamo aperto gli occhi. Oddio, fino a un
certo punto, sia chiaro.
Alla consapevolezza storica di quel che realmente accadde, non è ancora subentrata una reazione che, seppur mai uguale a quella di chi barbaramente ci trucidò
e conquistò, almeno di quella abbia il -moderno, civile, dialogico-vigore.
Però poi lo ascolti, re Giorgio. L’inquilino del Colle, monte consacrato a
Quirino, cui s’indirizzavano, nell’antichità, le feste dette anche “degli
stolti” (sarà un caso?).
E ti viene da pensare: ma Napolitano (perché l’avrai udito anche tu, no?), quando dice che dobbiamo ringraziare l’Europa per la libertà e la democrazia, ricorda, al contempo, lui da che parte stava nel mentre stesso accadevano certe
cose? Non voglio fare il Salvini, per carità. Me ne guardo bene.
Però, è vero che sei migliorista (non tu, Giorgio), è vero che Berlusconi ti finanziava le riviste della tua “destra” interna Pci (dunque
collimante con Silvio: fighissima ala destra Psi), è vero che eri l’occidentale del gruppo, però nel 1956, cacchio, queste parole dicevi: “In Ungheria l’Urss porta la pace”.
Le proferivi, presidente caro, un anno prima di quel Trattato di
Roma che davvero, nelle intenzioni popolari e cristiane dei fondatori (distinte, a mio parere, dalle auliche atmosfere alla Spinelli, così poco italiane), doveva servire ad armarci di pace. Calvino, Di Vittorio: non furon pochi, nel partito, quelli pronti ad osteggiare Togliatti. Lui, no: se ne stava fedele fedele, sovieticamente sull’attenti.
Ma non è finita qui, Mario. Il presidente, giustissimamente, ricorda gli
italiani periti barbaramente alle Fosse Ardeatine (tra cui, mi piace
rammentarlo, diversi pugliesi -come accadde anche nelle foibe-), ma perché poche, pochissime parole, il 17 marzo, sugli italiani morti nel tentativo di annettere il sud alla causa sabauda?
Italiani trucidati da altri italiani, sotto le tristi vesti di un esercito
tecnicamente invasore e conquistatore; paesi rasi al suolo; una legge Pica (Giuseppe Pica: un meridionale d’Abruzzo, tra l’altro) che autenticamente può definirsi la prima legge razziale dello stato unitario: fu una vera conquista militare e spesso meramente cruenta e truce. Però nei giorni topici della ricorrenza nemmeno un cenno.
E’ vero che non abbiamo fatto gli italiani, come voleva un simpatico
“padre della Patria”, ma almeno facciamo i gentiluomini. Possibilmente, non
quelli descritti da Tomasi di Lampedusa. Il Tomasi che un letterato amico ideologico di Napolitano -ma grande scrittore- censurò. Un po’ censori, ‘sti comunisti de’ noantri.
Fortuna di Tomasi che poi ci fu Bassani. Un socialista.
Uno buono, evidentemente, visto che Bettino collezionava immaginette di Garibaldi (e non solo: per informazioni, chiedere a Maurizio Raggio).
Viva l’Italia.