Cominciato all’insegna del settimo centenario dalla morte, il 2021 promette solenni celebrazioni nazionali per Dante Alighieri: i maggiori quotidiani, la RAI ed altre emittenti televisive gli hanno già dedicato servizi e programmi e ne promettono numerosi altri, avviando una commemorazione che impegnerà, nel corso dell’anno, l’intera Italia. Le librerie, da tempo, vanno riempiendosi di testi che raccontano la vita, presentano aspetti poco conosciuti (spesso, inventati), indagano personalità ed opere del nostro maggior Poeta. Insomma, le iniziative proliferano e si sommano, in un crescendo esponenziale, COVID permettendo. Forse, mancano i gadget secondo uno stile british più consono al clima dei festeggiamenti nazionali ma fa davvero piacere tanto interesse per un Autore, spesso, troppo spesso soggetto ad interpretazioni poco corrette ed insoddisfacenti. Che passano subdolamente tramite appellativi e designazioni roboanti, non del tutto rispondenti al vero: il Padre della Lingua; il Primo Patriota; il Divino Poeta. O propongono attualizzazioni astruse ed accostamenti poco credibili: Dante e la contemporanea situazione politica italiana; Dante e la corruzione dilagante; Dante ed i mali della società moderna. Che possono essere suggestive, se non fossero arbitrarie e settarie. E se non mettessero a tacere altri aspetti, giudicati poco opportuni o sgradevoli o, addirittura, intollerabili in un clima di festa e di euforia quale quello delle celebrazioni. Ufficiali, per di più. Quindi, meglio non parlarne, con buona pace dell’obiettività e della ricerca storica. Invece, gradiremmo che di Dante si ricordasse anche quella congerie di atteggiamenti, mentali e concreti, che la nostra età non gradisce, tutta presa com’è nel rendere corretto, politicamente corretto, un autore. Qualsiasi autore. Figuriamoci, poi, uno come Dante! Un vero osso duro, alla prova dei fatti. Eh, sì, perché il Sommo Poeta tanto illuminato dalla Grazia divina non era, se malediceva, imprecava, condannava (senza appello!), lasciandosi prendere dalla rabbia e dall’invidia, dall’odio e dal rancore personali, come dimostrano tanti personaggi ingiustamente da lui castigati, spesso con sadica furia. E della lingua non si curava poi molto se usava termini spesso scorretti e dialettali come “dichi” (Purg., III, v. 117) e “fiche” (Inf., XXV, v. 2). Né era un’aquila sul piano politico se non aveva capito che Firenze stava diventando una città potente e ricca, capace di competere con le capitali europee, che l’Imperatore non aveva nessun interesse ad intervenire in una situazione italiana confusa e pericolosa e che il Papa era, forse, l’unico a salvaguardare gli interessi italiani essenziali, garantendo una certa libertà ed un notevole prestigio culturale. E che tutti quelli da lui, Dante, celebrati erano personaggi politicamente mediocri, incapaci e limitati. Né, infine, si preoccupava abbastanza, il Sommo Vate, di correggere le sue contraddizioni per le quali condannava gli usurai ed era lui stesso coinvolto in losche transazioni finanziarie, deprecava la corruzione e sistemava i figli grazie alla raccomandazione dei suoi mecenati, rifiutava il compromesso ed assecondava un signorotto insulso e borioso di Ravenna o un nobilotto arrogante e presuntuoso di Verona. Per non parlare, poi, dei sentimenti celebrati nelle sue poesie, puntualmente contraddetti dalla sua condotta affettiva: non una parola per una moglie, che pure gli aveva dato quattro figli e portato una cospicua dote, non una per la madre o il padre, che gli avevano permesso di studiare senza lavorare mantenendolo agiatamente, alcun accenno ad amici, che non s’era fatto scrupolo di esiliare, nessun riferimento alle motivazioni della sua condanna, il che lascia pensare che poi tanto immotivata non fosse. Semmai esagerata ma ingiusta, no. Abbiamo riassunto un po’ precipitosamente ma il lettore (sorpreso, nevvero?) ci perdonerà pur chiedendosi il perché. Ma per restituire Dante alla sua dimensione tutta umana dalla quale secoli di esegesi, ricerche, indagini, interpretazioni ed ipotesi, condite con effluvio di retorica melassa, lo hanno sottratto, facendone quell’icona che viene sbandierata, opportunisticamente, ad ogni celebrazione ed ogni qualvolta si parli di lui. Una dimensione tutta umana in cui si può meglio apprezzare il valore del poeta (rigorosamente con la minuscola). Che se “non ha bisogno di presentazioni”, come è stato efficacemente dichiarato di recente, certo ha diritto a qualche precisazione. Necessaria per ricordare a tutti che, prima della poesia, viene l’uomo. Che con la Poesia riesce a “trasumanar” (Par. I, v. 70) . Cioè a sublimare quei difetti che lo inchiodano alla terra. Ma gli appartengono.
Nicola Fiorino Tucci