Quella sera del 4 maggio 1980, una domenica, Emanuele Basile stava rientrando a casa in compagnia di sua moglie e della figlia di quattro anni, dopo aver assistito alla processione per la festa del Santissimo Crocifisso a Monreale, dove da tre anni era comandante della compagnia dei Carabinieri. L’Ufficiale aveva in braccio la figlia Barbara addormentata quando i sicari di Cosa Nostra gli spararono numerosi colpi di arma da fuoco. Rigorosamente alle spalle. E lui, in un ultimo gesto eroico, ha fatto da scudo alla pargola per proteggerla dai proiettili. Non muore sul momento, viene trasportato all’ospedale di Palermo, ma anche lui si unisce alla lunga lista dei cadaveri eccellenti che cadevano in una Sicilia sempre più martoriata e dilaniata, ma che non aveva ancora sperimentato la piena ferocia dei corleonesi.
Le indagini, per volontà di Rocco Chinnici, sono affidate a Paolo Borsellino, amico di vecchia data di Basile, uno degli ultimi arrivati al Tribunale palermitano ma per fare il magistrato civilista e non il penalista.
Ma da allora la sua vita cambia radicalmente.
Emanuele Basile, allora. Irriducibile avversario del cancro della Regione più grande dello Stivale. Una vita passata a seguire e servire quei sentimenti di giustizia e legalità che abbraccia fin da giovanissimo. Dall’infanzia passata nella sua città natale, la bellissima Taranto. E che gli impediscono di continuare a frequentare la facoltà di Medicina, che aveva iniziato con risultati eccellenti.
E che lo portano a diventare carabiniere, prima nel genovese, poi a Torre Annunziata e quindi a Monreale, l’ultima tappa di una vita interrotta in modo vile a 31 anni.
Nella città siciliana non distante da Palermo arriva nel 1977, e cioè negli anni in cui la Mafia aveva messo le mani, in modo serio e potente, sui traffici internazionali di droga e a pochi mesi dalla seconda guerra mafiosa, alias mattanza di Salvatore Riina e compagni.
E lui, fin dal principio, capisce che Cosa Nostra controlla la fonte di denaro più potente del pianeta, e lo realizza ancora di più indagando sulla morte di Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo, ammazzato da Leoluca Bagarella nel luglio 1979. Come lui anche Basile, grazie ad accertamenti bancari, comprese il nuovo business della mafia. Questo lo ha portato a capire anche i legami tra la cosca di Altofonte e quella corleonese, tanto più che, due mesi prima di morire, riesce a far arrestare i membri delle famiglie del mandamento di San Giuseppe Jato, rappresentato dall’epoca da Antonio Salamone e Bernando Brusca, e alla denuncia di altri sodali tra cui lo stesso Leoluca Bagarella, Antonino Gioè, Antonino Marchese e Francesco Di Carlo. Le attività delle cosche portarono il talentuoso carabiniere tarantino a formulare l’ipotesi che le famiglie facevano capo a Salvatore Riina. Con tanto di documentazione consegnata a Borsellino il 16 aprile 1980.
Tre settimane prima del suo assassinio. Che ha avuto nomi di mandanti ed esecutori soltanto dopo sette processi e svariati anni.
Ne bastano invece due, invece, a Basile per ottenere la medaglia d’oro al valore civile per essersi “distinto in precedenti, rischiose operazioni di servizio, s’impegnava, pur consapevole dei pericoli cui si esponeva, in prolungate e difficili indagini in ambiente caratterizzato da tradizionale omertà, che portavano alla individuazione ed all’arresto di numerosi e pericolosi aderenti ad organizzazioni mafiose operanti anche a livello internazionale. Proditoriamente fatto segno a colpi di arma da fuoco in un vile agguato tesogli da tre malfattori, immolava la sua giovane esistenza ai più nobili ideali di giustizia ed assoluta dedizione al dovere”.
Nel 2011 l’Università di Palermo gli ha conferito la laurea Honoris Causa in Giurisprudenza, mentre due anni dopo Monreale gli ha conferito la cittadinanza onoraria.