Da quel giorno sono passati 45 anni, ma l’accaduto, nonostante abbia i nomi dei colpevoli, è ancora un crocevia dei misteri d’Italia.
Già, perché l’omicidio del 34enne commissario Luigi Calabresi, avvenuto il 17 maggio 1972, è legato irrimediabilmente a tanti misfatti che succedono prima e a un numero importanti di accadimenti che si verificano poi.
Parlare dell’assassinio del vice responsabile dell’Ufficio politico della questura di Milano, ucciso da due colpi alla nuca in via Francesco Cherubini, a pochi passi dalla sua abitazione, significa far riferimento all’eccidio di piazza Fontana, alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, la strage davanti alla questura di Milano, il grande enigma di Gladio, le trame dei servizi segreti.
Gli autori dell’assassinio Calabresi hanno precise identità. Leonardo Marino e Ovidio Bompressi, gli esecutori materiali. Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, i mandanti. Tutti e quattro appartenenti a “Lotta continua”, una delle maggiori formazioni della sinistra extraparlamentare italiana, di chiaro stampo rivoluzionario, attivissima tra gli anni ’60 e gli anni ’70.
Ci sono voluti ben 16 anni per conoscere le loro facce, e grazie soltanto al pentimento di Marino, che poi ci ha fatto anche un libro (1999, “Così uccidemmo il commissario Calabresi”). Da queste parole, inoltre, sono stati celebrati svariati processi, unicamente basati sulla sua versione dei fatti ma che, secondo qualche voce critica, avrebbe più di qualche punto oscuro.
Per la magistratura il caso è chiuso, tant’è vero che non ha voluto riaprirlo nel 2000, quando ha rigettato la richiesta di revisione presentata dall’avvocato di Bompressi, Pietrostefani e Sofri.
Ma perché il poliziotto milanese, padre di Mario (attuale direttore di “Repubblica”, che ne ha raccontato la vita in “Spingendo la notte più in la”), Paolo e Luigi, viene ucciso?
La Milano di quegli anni è lo specchio di quello che accade nel Belpaese. I primi attentati terroristici. Estrema destra e l’estrema sinistra. Pure gli anarchici.
Fin dal suo ingresso nella questura di Milano, a metà anni ’60, a Calabresi (lavorerà al suo fianco l’ex sindaco bitontino Raffaele Valla) è affidato il compito di sorvegliare sugli ambienti della sinistra extraparlamentare, e nel 1969 è incaricato di indagare sull’accaduto in piazza Fontana, dove una bomba ha ammazzato 17 persone nella Banca nazionale dell’Agricoltura, ferendone altre 88.
È il 12 dicembre. Tre giorni dopo, durante una serie di interrogatori, l’anarchico Giuseppe Pinelli muore precipitando dalla finestra della stanza del commissario.
Si è suicidato? Lo hanno buttato? È stato Calabresi a farlo?
L’episodio non passa in secondo piano, e il nome del poliziotto romano entra nella bocca e nella testa dell’opinione pubblica, sia a causa dei molteplici attacchi da parte degli intellettuali di sinistra (c’è il film di Elio Petri “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, o la commedia di Dario Fo “Morte accidentale di un anarchico”), da gruppi di estremisti, da una parte della stampa (la più dura è Camilla Cederna, giornalista de “L’Espresso”, e autrice del libro “Pinelli: una finestra sulla strage” e di una durissima lettera aperta sul settimanale).
Nel 1972, poco prima della sua morte, indagando sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli, Luigi Calabresi stava investigando su un traffico internazionale di esplosivi e di armi che sarebbe avvenuto attraverso il confine triestino e quello svizzero. Ma non fa in tempo a completare il lavoro, perché il 17 maggio, poco dopo le 9 di mattina, è assassinato alle spalle.
È indimenticabile, però. Ha ricevuto la medaglia d’oro al valore civile. È stato proclamato servo di Dio dalla Chiesa cattolica. Secondo Giovanni Paolo II è stato un “testimone del Vangelo e eroico difensore del bene comune”.
È in corso il processo di beatificazione.
“La pistola puntata alle spalle del commissario Luigi Calabresi – si legge sulla quarta di copertina del libro “Spingendo la notte più in là” – cambierà per sempre la storia italiana. Di lì a poco il nostro paese scivolerà in uno dei suoi periodi più bui, i cosiddetti “anni di piombo”, “la notte della Repubblica“. Quei due colpi di pistola però non cambiarono solo il corso degli eventi pubblici, ma sconvolsero radicalmente la vita di molti innocenti. La storia dell’omicidio Calabresi è anche la storia di chi è rimasto dopo la morte di un commissario che era anche un marito e un padre. E di tutti quelli che hanno continuato a vivere dopo aver perso la persona amata durante la violenta stagione del terrorismo”.