Ancora oggi, dopo 58 anni da quella leggendaria impresa sportiva, sono tante le immagini e le espressioni che gli appassionati utilizzano per ricordarla, ma soprattutto per ricordare lui, l’indimenticabile protagonista.
C’è chi lo ha chiamato il maratoneta scalzo ma con le ali ai piedi. O il grande corridore che correva verso la libertà.
Ma lui, quell’etiope dal nome impronunciabile, Abebe Bikila, è stato soltanto (si fa per dire, ovviamente), quell’africano in grado di compiere qualcosa di straordinario. Per l’epoca e non solo. Non tanto – e già di questo di per sé è bellissimo – per la storia dell’atletica, ma per lo sport intero.
Vincere la maratona delle Olimpiadi di Roma del 1960 correndo scalzo. Sì, proprio a piedi nudi. Senza quelle “scomode scarpe” – ipse dixit – avute prima della partenza.
Un qualcosa che riecheggia ancora oggi, e che sentiremo ricordare per sempre, perché Bikila, la sua corsa, la sua impresa, la sua vittoria, sono tante cose insieme.
In una Olimpiade dominata – come tante in quegli anni – dal duopolio made by Guerra fredda tra Usa e Unione sovietica, è stato il primo africano ad ottenere l’oro a cinque cerchi, in quello che viene ricordato nella storia come “l’anno dell’Africa” per la grande ondata di decolonizzazioni.
Già, perché siccome molto spesso lo sport si intreccia con la vita e con la Storia, quelli erano gli anni in cui molte ex colonie africane, dopo secoli di dominazione europea, hanno iniziato ad alzare la testa, a capire che bisognava far valere il principio di autodeterminazione, venuto ancora di più fuori dopo la Seconda guerra mondiale, a cacciare chi per anni chi li aveva conquistati e occupati. L’ondata, in realtà, ha iniziato a concretizzarsi già dalla fine degli anni ’40, si è intensificata negli anni ’50, e si è conclusa nel decennio successivo.
Con il sangue e non.
E, incredibile coincidenza, Bikila ha fatto suo quel titolo proprio in Italia, quel Paese che 24 anni prima aveva occupato e vandalizzato la sua terra con la violenza e le uccisioni di massa, a lungo sottaciute.
Ma chi è stato questo maratoneta etiope che si è imposto nella competizione più importante delle uniche Olimpiadi italiche della storia moderna?
Figlio di un pastore, ha lavorato come agente di polizia per mantenere la famiglia, ma di sogni nel cuore ne aveva molti, primo tra tutti quello di portare sul tetto del mondo la sua Africa, la sua Etiopia.
La sua impresa romana ricorda un po’ quella di quel Filippide che ha corso da Maratona ad Atene per annunciare la vittoria dei Greci contro i Persiani. E pensare che Abebe non era affatto tra i favoriti quella mattina. Correva nelle competizioni di atletica da soli quattro anni, e ha preso parte alla nazionale olimpica in sostituzione di un compagno ritiratosi per un infortunio. Nessuno, quindi, avrebbe mai immaginato che un giovane sconosciuto 28enne potesse resistere alla fatica per 2 ore, 15 minuti e 16 secondi correndo a piedi nudi, superando per primo l’Arco di Costantino, traguardo di quella XVII edizione dei Giochi.
Non sazio né contento, si è ripetuto – questa volta con le scarpe – quattro anni dopo a Tokyo dove, nonostante l’operazione di appendicite a 40 giorni dalla gara, ha centrato un altro primato: per la prima volta un atleta ha vinto due ori consecutivi nella maratona olimpica.
Nel 1968, invece, a Città del Messico, le cose non sono andate bene, forse a causa dell’altitudine.
Ma la disgrazia non è questa. Gli arriva un anno dopo, e gli impedisce per sempre di continuare a volare senza mai aver avuto le ali. È come se la Natura, invidiosa del suo percorso, abbia voluto interrompere il suo viaggio verso la libertà. Accade, infatti, che un incidente d’auto lo rende paralizzato dalla vita in giù. È un dramma, perché nonostante le cure, non riuscirà mai più a camminare, ed è “costretto” a gareggiare, nel 1972, alle Paraolimpiadi, nel tiro con l’arco, correndo, anche questa volta, anche se in modo diverso.
L’anno successivo una emorragia cerebrale gli ha fermato il cuore e il respiro.
Aveva soltanto 41 anni, ma già una grandezza millenaria…