L’aggettivo per questa storia è e può essere una solo: incredibile.
Come definire, d’altronde, quella situazione in cui un uomo è condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello, che in realtà si ripresenta vivo e vegeto qualche anno dopo?
No, non è follia e neanche la trama di un film. È uno degli errori giudiziari più clamorosi della storia repubblicana italiana, ben prima di quello – completamente diverso – capitato a Enzo Tortora.
Sicilia, allora. È il 7 ottobre 1954. Dai carabinieri di Avola, piccolo centro agricolo in provincia di Siracusa, si presenta una donna che vuole denunciare la scomparsa del marito. L’uomo è uscito di casa alle 4.30 di mattina del giorno precedente per andare a lavorare nei campi e non è più ritornato. Si chiama Paolo Gallo.
Le indagini partono rapidissime. Vicino alla masseria dove Paolo lavorava gli inquirenti ritrovano tracce di sangue, presenti anche su un berretto che si scopre appartenere a Gallo. Si pensa subito a un’aggressione, perché la signora Gallo ha raccontato agli inquirenti che pochi giorni prima suo marito ha litigato con il fratello Salvatore, con cui i rapporti erano difficili ed era, per di più, notorio a tutti.
La perquisizione successiva a casa di Salvatore, allora, sembra confermare i dubbi perché all’interno vengono rilevate macchie di sangue su un paio di pantaloni e su una camicia del figlio 17enne, Sebastiano.
L’idea è la seguente, allora: Paolo Gallo è stato ucciso al termine di un litigio dal fratello Salvatore in compagnia del figlio Sebastiano.
Sono arrestati il 25 novembre con l’accusa di omicidio aggravato e occultamento di cadavere. Il processo di primo grado, nonostante testimoni affermino di aver visto vivo Paolo Gallo pochi giorni prima delle udienze, si conclude con la condanna all’ergastolo per il fratello Salvatore e di 14 anni per Sebastiano.
Non va tanto meglio in Appello, dove l’unica novità è per Sebastiano, assolto per insufficienza di prove ma gli resta la condanna per occultamento di cadavere (già, ma quale cadavere? E soprattutto, dove è?)
Nulla muta neanche in Cassazione. Per la giustizia, insomma, si è trattato di un omicidio consumatosi per beghe familiari.
Di un cadavere che però non c’è.
Di un morto che però non esiste.
Titoli di coda? Per fortuna no. Saranno le successive indagini di un giornalista della “Sicilia” di Catania, Enzo Asciolla, a rappresentare l’elemento nuovo di una vicenda altrimenti destinata a chiudersi con una clamorosa ingiustizia.
Il cronista, seguendo una labilissima traccia poi diventata via via più forte, scopre che Paolo Gallo non è mai morto, ma ha semplicemente deciso di scomparire. È rintracciato il 7 ottobre 1961 mentre dorme in una casa alla periferia di Ispica, in provincia di Ragusa.
Il fratello, nel frattempo, era da sette anni in carcere a Ventotene e, come se non bastasse, è stato colpito da una grave forma di artrite che lo ha costretto sulla sedia a rotelle.
Il 10 ottobre è rilasciato in libertà provvisoria e, altra beffa, non può ricevere la grazia dal presidente della Repubblica, riservata soltanto ai colpevoli e non agli innocenti.
Nel 1966, anche grazie a novità introdotte nel codice di procedura penale, c’è la revisione del processo: nessun omicidio, ma soltanto aggressione. Non ergastolo, bensì quattro anni e mezzo di reclusione. Ovviamente già ampiamente scontati.
E, proprio perché comunque colpevole, nessun risarcimento gli è stato riconosciuto.