Ci siamo da poco messi alle spalle la ricorrenza del 25 aprile, che ogni anno continuiamo a interpretare male e a festeggiare ancora peggio, perché ancora ideologizzata, politicizzata e mai affrontata nella sua interezza e completezza.
E, ripensando a cosa sia stata veramente quella giornata e, soprattutto a come si è arrivati a quell’evento che ha segnato la nostra Storia (la s è maiuscola, chiaramente), diventa inevitabile guardare oltre i confini nazionali.
A due nomi impronunciabili ma che difficilmente dovrebbero essere dimenticati. Non sono italiani, certo, perché sono diventati mondiali.
Uomini prima, calciatori poi. Eroi quindi.
Istvàn Tòth e Géza Kertész. Nascono nell’effervescente Budapest di fine ‘800, la culla del calcio danubiano, che si sta affermando come uno dei più belli e vincenti d’Europa. Fisicamente sono agli antipodi. Istvàn ha un fisico non particolarmente adatto ad andare dietro a un pallone, è alto poco più di 1.60 metri e pesa quasi 80 chili, ma ha uno scatto fulmineo, e una tecnica fuori dal comune. Géza invece è alto più di un 1.90 metri ed è soprannominato “il bradipo” per la lentezza, ma ha un’intelligenza calcistica fuori dal comune, e per lo più è l’allenatore in campo delle squadre in cui gioca.
Le loro vicende si incrociano poco prima che scoppiasse un altro conflitto, il primo. È il maggio 1914, ed entrambi sono convocati per un’amichevole contro l’Austria. Nessuno sa ancora che, in un modo o nell’altro, diventeranno inseparabili, anche se proprio quella palla che rotola li porterà spesso a essere distanti geograficamente. Ma sempre, a loro modo, decisivi.
Tòth si conferma una delle stelle del campionato magiaro, continuando a vestire la casacca della nazionale. Kertész dopo aver appeso le scarpe al chiodo decide di insegnarlo, il calcio. Iniziando a vincere proprio nel Belpaese. Spal prima, ma poi Salernitana, Catanzaro, Catania, Viareggio, Taranto e Carrarese, Lazio, portandola a un insperato quarto posto in Serie A nella stagione ’39-’40.
In Italia arriva anche l’altro. Per fare cosa? L’allenatore, chiaramente. Alla Triestina e Ambrosiana-Inter, nella quale gioca un giovane ragazzo di nome Giuseppe Meazza.
Lo Stivale, però, diventa non più accessibile anche per loro perché, nel 1938, c’è l’avvento delle leggi razziali e decidono di tornare in Ungheria, dove però qualche anno dopo arriverà un pericolo ben più grave. La Germania nazista che invaderà la Nazione nonostante la dichiarata neutralità. E qui, a Budapest ma non solo, la grande comunità ebraica viene rinchiusa nel ghetto e decimata di giorno in giorno.
Ed è qui che inizia la seconda parte della storia di Istvàn Tòth e Géza Kertész.
Non si può stare con le mani in mano, anche perché le vittime aumentano in modo esponenziali, così come la vergognosa caccia all’uomo.
Prendono contatti con la resistenza ungherese, creano una loro organizzazione, e, soprattutto, allacciano importanti rapporti con i servizi segreti statunitensi.
Non è roba da poco, perché riescono a salvare un numero massiccio di ebrei, facendoli fuggire o nascondere in case e/o monasteri, in una delicatissima e complicatissima operazione durata oltre un anno.
A fine ’44, però, non si sa chi e come, i due ex calciatori sono segnalati alla Gestapo e immediatamente arrestati. Resistono due mesi. Perché nel febbraio 1945, quando i tedeschi sono costretti a lasciare l’Ungheria sconfitti dai sovietici, andandosene in fuga decidono di lasciare il loro ultimo segno. Mandare a morte gli ultimi prigionieri.
Fucilano sette commilitoni.
Ci sono anche Istvàn e Gèza.