DI ANGELO PALMIERI, SOCIOLOGO
Siamo realmente persuasi che il decreto “carcere sicuro” del ministro Nordio determini un cambiamento strutturale del problema riferito al sovraffollamento delle carceri e un miglioramento complessivo delle condizioni di reclusione? Dalle attuali statistiche sui suicidi dei detenuti dall’inizio dell’anno, ben 59, oltre ai comportamenti autolesivi messi in atto allo scopo di richiamare ad una sofferenza emotiva, ci sembra di poter affermare che il decreto assurga, con motivato sospetto, ad intervento palliativo dello “stato di crisi” della classe politica che rischia di incorrere nuovamente in condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Il provvedimento rischia di reiterare situazioni di degrado e disperazione che minano alle fondamenta lo stato di diritto. Il tema del sovraffollamento non può più dirsi “emergenziale”. A Regina Coeli, a Roma, il tasso è del 180%, e siamo ad una media nazionale intorno al 130%.
Ma veniamo ad alcune misure contenute nel decreto: l’assunzione di nuove mille unità per il corpo della polizia penitenziaria, lo snellimento delle procedure per un’uscita in anticipo dal carcere per coloro che ne hanno diritto, più telefonate per i detenuti, l’istituzione di un albo delle comunità idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale per coloro che hanno i requisiti.
Da un’attenta analisi della legge è possibile evidenziare alcune criticità, ad esempio il problema generale della salute, assolutamente misconosciuto, come sostiene Michele Miravalle, coordinatore dell’osservatorio dell’Associazione Antigone, la questione della salute mentale (più del 40% dei detenuti fa uso di psicofarmaci) e di un mancato allargamento delle figure come gli psichiatri e tecnici della riabilitazione psichiatrica (problema cronico), l’assunzione di mille agenti di polizia, pur necessari, senza considerare altre figure professionali rilevanti, quali quelle degli educatori e dei mediatori culturali significa precipitare verso una visione di ordine pubblico da ristabilire, ovverosia una sorta di “securitizzazione” del carcere.
È bene sottolineare che l’’inserimento di mediatori risulterebbe di fondamentale importanza, in ragione del fatto che in carcere circa il 30% delle persone sono straniere, come il coinvolgimento di altre figure innovative quali gli educatori sportivi, portatrici di linguaggi nuovi, magari facendo leva anche sull’esperienza del terzo settore. Sull’istituzione di un albo delle comunità, (a dire il vero su questo punto il decreto è confusivo), soprattutto per stranieri e coloro che non hanno una residenza ufficiale, può costituire indubbiamente un passo in avanti come luogo di espiazione della pena, infatti molti detenuti avrebbero i requisiti normativi per la detenzione domiciliare ma non ci vanno perché sprovvisti di domicilio, ma è altresì vero che il nostro Paese attualmente, ad eccezione di qualche buona pratica messa in campo dall’associazionismo sociale, non credo sia dotato di residenze con standard alti, sia in termini di spazi che di qualità degli interventi.
E a tal proposito, il rischio di replicare contenitori di disagio, ad esempio per stranieri, fortemente ghettizzanti e poco inclusivi è più che una suggestione. Sulla possibilità di scontare la pena in comunità per le persone con problemi di dipendenza che di per sé già esiste, sarebbe auspicabile, tuttavia, una revisione significativa dei modelli di presa in carico, pur nel rispetto degli approcci terapeutici.
Quanto all’ inserimento lavorativo, pur menzionato nelle ipotesi del decreto, sarà possibile misurarlo in termini di risultati raggiunti?
Ora la palla passa al legislatore, ma ahimè, forse un po’ realisticamente il decreto del governo Meloni non sarà sufficiente a spezzare la catena di morte e disperazione che strazia le nostre prigioni.