DI MICHELA RUBINO
Nei primi anni Settanta, tra il settembre del 1971 e il giugno del 1972, la città di Bitonto fu segnata da una serie di tragedie che scossero profondamente la comunità locale e il paese intero. Cinque bambini persero la vita in circostanze oscure, annegati nelle cisterne abbandonate che punteggiavano il borgo antico, luogo segnato dall’emarginazione. I loro nomi – Adolfo, Giuseppe, Concetta, Incoronata e un secondo Giuseppe – si affacciarono per un breve periodo sui titoli di cronaca nera, ma la memoria collettiva del paese ne conserva ancora il peso come un’ombra incombente.
Le vittime provenivano da famiglie tutte imparentate, un nucleo isolato in una rete di povertà e superstizioni, nutrito da sospetti e silenzi. All’epoca la stampa nazionale raccontò questo microcosmo degradato, fatto di “venditori di fortuna e accattoni”, che la Bitonto perbene fingeva di non vedere, quasi non esistesse.
Mentre si cercava di dare un senso a queste morti e la giustizia non riusciva a individuare responsabili, alcuni membri della comunità di Bitonto presero in mano la situazione. Intuirono che, per evitare che il dolore si ripetesse, era necessario intervenire sulle radici di quel disagio, togliendo i bambini dalle strade e offrendo loro un futuro diverso. Fu così che suore, sacerdoti e professori crearono l’asilo Pantaleo. La scuola, costruita proprio nel cuore di quel quartiere segnato dalla tragedia, divenne un luogo di accoglienza e crescita per i bambini. Attorno all’asilo si mobilitarono la parrocchia di San Domenico, l’amministrazione comunale e tanti cittadini che volevano fare la differenza.
Il lavoro dei volontari non si limitava alle aule dell’asilo. Si organizzavano cineforum, catechesi, incontri per gli adulti. Il centro storico di Bitonto cominciò a vivere una rinascita, e la scuola divenne il simbolo di una città che, unita, tentava di rispondere con dignità e speranza a un’incomprensibile disgrazia. Era un tempo in cui non c’erano né finanziamenti pubblici né supporti istituzionali, solo l’impegno di uomini e donne che dedicavano il proprio tempo e le proprie energie per costruire una comunità più solidale.
Eppure, con il tempo, qualcosa si è perso. La chiusura delle parrocchie, la fine di quei presìdi che offrivano sostegno e ascolto, ha fatto sì che il cammino avviato venisse lasciato in sospeso e che quella parte di città restasse ancora prigioniera dei suoi fantasmi.
Oggi la storia prende una svolta amara. L’asilo Pantaleo non è più quel centro educativo e le sue stanze, un tempo vive di voci e di speranza, sembrano abbandonate a destini ben diversi da quelli per cui erano state create. Il borgo antico rimane in parte ancorato alla sua condizione di marginalità. Il senso di comunità e solidarietà che aveva animato la Bitonto degli anni Settanta si è affievolito. Nuovi ostacoli si pongono di fronte al quartiere e alla città.