Il pollice, si sa, per la sua opponibilità, permette all’uomo di afferrare una qualsiasi cosa e di farne l’uso che l’istinto o il cervello meglio dispone ma è anche un importante strumento di comunicazione non verbale: nell’Antichità, il ‘pollice verso’ (“girato il pollice verso il basso”) era un gesto di diniego con cui l’imperatore non concedeva la salvezza al gladiatore sconfitto nel circo. Nel Medioevo, poi, il pollice esprime una notevole capacità artistica: in talune epigrafi dell’epoca, infatti, si legge ‘docto pollice’, cioè con tocco sapiente, con grande bravura ad esprimere la maestria, la perizia di un artista o artigiano che sia. L’espressione richiama, implicitamente, anche la docta manus ricordata nell’iscrizione, che corre lungo il margine frontale dell’ambone nella cattedrale di Bitonto: DOCTA MANUS ME FECIT AD (H)OC UT LECTIO VITAE HIC RECITATA FERAT FRUCTUS (mi ha composto una mano esperta a questo scopo: che la lezione di vita qui impartita porti vantaggi). Si tratta, quindi, di una formula tecnica che siamo indotti a credere fosse incisa anche su una grande lastra di pietra frammentaria ritrovata oltre cinquant’anni fa a Bitonto, in un locale presso la Cattedrale, ed oggi esposta in una bella sala del locale Museo Diocesano, su cui si legge: … pollice sculpxit. All’epoca della sua scoperta il reperto fu subito descritto ed analizzato da una studiosa dell’Arte medievale che sentenziò: “l’unica cosa chiara, …., è il nome dello scultore, Pollice, che per la sua opera si è meritato etc.” (Studi Bitontini, n. 6, dicembre 1971, pp. 7 – sgg.). Affermazione un po’ avventata, da ‘pollice verso’ perché “l’unica cosa chiara” in quella lastra è che lo scultore non si chiama affatto Pollice: infatti, il termine “pollice” ivi inciso non è un nominativo ma un ablativo (con valore di strumento o di modo), che si riferisce, molto probabilmente, all’abilità di chi l’abbia scolpita, quella lastra.
Purtroppo, una diffusa preferenza per il latino maccheronico ha subito battezzato il reperto fin dagli anni Settanta col nome di “lastra di Pollice” e costringe anche noi, per non disorientare il lettore, a ricordarlo così in questa sede.
Orbene, chi ammira la lastra suddetta legge la seguente iscrizione disposta su tre registri paralleli:
… MIRABILIS ADQ DECORUS COMPOS …
… USQ PRE SBITER HOC STRUCXIT …
… POLLICE SCULPXIT CUI JOAH CIM NATA DET CELICA REGNNA
E nel vederla salta subito agli occhi che le sue lettere sono incise in maniera pressoché identica a quelle della ben più famosa epigrafe: HOC OPUS FECIT NICOLAUS MAGISTER ET SACERDOS etc, sottostante il lettorino dell’ambone surricordato e datata al 1229; lo sono nell’evidente influenza della scrittura onciale dell’epoca, nel tratto e perfino nella superstite colorazione. Ciò suggerirebbe una possibile datazione della cosiddetta “lastra di Pollice” alla prima metà del XIII secolo. Tuttavia, nel leggerla ancor più attentamente, per tradurne il testo, si notano dei grossolani errori di ortografia, imperdonabili per un artista serio e preparato: STRUCXIT, SCULPXIT, JOAHCIM, CELICA, REGNNA invece di struxit, sculpsit, Joachim, coeli(ca?), regina (o regna). Possono essere passati inosservati questi svarioni ai committenti della lastra? O hanno determinato un abbandono se non un rigetto del prodotto perché mal riuscito? Decisione che, forse, giustifica il suo disinvolto riutilizzo in epoca più tarda (a nostro parere, il secolo XVII), poco rispettoso perfino delle dimensioni e della forma del manufatto: due angeli che sorreggono un calice. Certo, uno degli errori suddetti si ritrova tale e quale in un’iscrizione della cappella di san Matteo, in piazza Marconi a Bitonto: SERGIUS HOC TEMPLUM BOS STRUCXIT (Sergio Bove fece costruire questo tempio). I caratteri sono diversi ma databili allo stesso XIII secolo (in cui visse il Sergio Bove che viene ricordato) e forse attestano che la forma errata (STRUCXIT) era comune nella scrittura epigrafica di quegli anni. O che il lapicida fosse lo stesso.
Ma gli altri errori? Soprattutto, quel REGNNA non può essere giustificato con un casuale tratto di scalpello trasversale che abbia stravolto un probabile REGINA, appellativo proprio della Madonna, difficile però da ricollegare col precedente CELICA. A meno che anche CELICA non sia un’ennesima svista per CELICOLA, “abitatrice del cielo”. Che, però, mal si addice ad una REGINA COELI, qual è la Madonna, declassata da “Regina del Cielo” a sua semplice “abitatrice”. Tuttavia, il significato di tutta l’espressione (POLLICE SCULPXIT CUI JOAHCIM NATA DET CELICA REGNNA) è reso ancor più difficile da capire per la presenza di un congiuntivo, DET (dia), con cui si augura che all’incisore della lastra sia garantito qualcosa di piacevole dall’intervento della Madonna: “gli dia …”. Il valore ottativo del congiuntivo DET, infatti, ci sembra una sfumatura grammaticale troppo fine per essere capita dal vasto pubblico che frequenta una chiesa. E riteniamo sia errata anche l’ espressione JOAHCIM NATA, usata per designare certamente la Madonna, figlia di Gioacchino (la forma corretta, però, è: JOHACHIM), perché è soppressa la preposizione latina “a” necessaria per indicare la discendenza nel latino anche medievale. Risulta, poi, strano che il presbiter che la strucxit sia anonimo in un’epigrafe celebrativa.
La frammentarietà della lastra, inoltre, non permette di capire chi o cosa sia il soggetto dell’iscrizione, che deve pure averne avuto uno, né ci aiuta a comprenderlo l’uso dell’ aggettivo maschile singolare DECORUS (decoroso), che non si riferisce all’ARBOR VITAE rappresentato nella lastra in quanto in latino ARBOR è femminile, né all’HOC del registro seguente, che è un pronome neutro. A meno che DECORUS non sia un altro errore di un lapicida piuttosto distratto. O molto ignorante.
La “lastra di Pollice”, poi, considerate le sue dimensioni e la sua decorazione, non ci sembra, come è stato ipotizzato, sia l’antependio, cioè il paliotto dell’altare del vecchio ciborio, costruito nel XIII secolo e smantellato nel XVII, i cui materiali furono accantonati in una cappella della Cattedrale per essere impropriamente riutilizzati nel XVIII secolo. Infatti, un documento ufficiale a noi pervenuto, la relazione dettagliata della visita sullo stato della Cattedrale di Bitonto, voluta dal vescovo Stella nel 1620, descrive accuratamente l’altare majus del ciborio come dotato di conca marmorea quadrata insculpta sine figuris, cioè non scolpita e priva di immagini, che, invece, sono presenti (eccome!) sul nostro manufatto, nella quale si apriva una finestrella (in dicta arca marmorea adest finestrella) per accedere al sottostante reliquario. Del resto, il paliotto del ciborio, ci informa G. Valente nel suo La Cattedrale di Bitonto (1902), fu riutilizzato per completare l’altare dedicato a san Gregorio taumaturgo sistemato nella cappella dello Spirito Santo della Cattedrale. Cappella nella quale sappiamo veniva depositato materiale proveniente da arredi interni alla Cattedrale come l’ ambone e in cui la” lastra di Pollice” non fu ‘conferita’ se è vero che fu rinvenuta in altro ambiente. Dove forse avrebbe dovuto fare bella mostra di sé se il suo lapicida non fosse stato così tanto distratto.