Non c’è cultura del lavoro senza iniziativa e senza lotta. In Italia, la consorteria che poggia sul debito pubblico ha creato la cultura del consociativismo, esatto antipode della competizione, su cui il lavoro moderno non può reggersi, né può rendere sostanziale il principio formale che apre la nostra Carta Costituzionale. Il reddito di cittadinanza ha mostrato le potenzialità del lavoro nero, senza regole e senza diritti, scrivendo l’ennesimo capitolo della decadenza dell’idea moderna di proletariato come energia liberale nella globalizzazione.
Si deve, allora, tornare alla casella dei diritti individuali e ripartire da lì, poiché le prediche di solidarietà creano la cultura dell’asservimento, lungo quella strada che Hayek definì già nel 1944 “The Road to Serfdom” (la via verso la schiavitù), contro cui l’unico antidoto rimane la partecipazione attiva alla vita politica ed economica, persino nella dematerializzazione della tempèrie odierna.
Ecco, il capitalismo non sia la parola impronunciabile che in certi ambienti culturali è, così come il lavoro sappia creare nuove cooperazioni e non posizioni di rendita da cui chiedere (e ottenere) favori dallo Stato: pagare le alte imposte per garantirsi “il posto”, rimanendo al riparo dalle folate della concorrenza. Il mondo non è una grande amministrazione pubblica, ed il lavoro moderno non ha affatto bisogno di nuovi burocrati del posto fisso. Se non si ha coscienza di questa “civiltà” che diviene necessità, il fondamento costituzionale della nostra nazione rischia di diventare il principio di tutte le frustrazioni degli italiani orfani del paternalismo della spesa pubblica, che alle necessità pedagogiche della lotta ideale hanno sempre opposto i sospiri di pace della legislazione sociale saldata, in bilancio, dalle generazioni avvenire.