di Angelo Palmieri
C’è un momento, a fine anno, in cui il silenzio si espande, occupando spazi e anime. È la calma spettrale delle case, diventate improvvisamente troppo grandi per chi le abita in solitudine. È l’immobilità degli anziani che fissano l’orologio, aspettando invano una visita. È il silenzio dei giovani, intrappolati in schermi luminosi, alla ricerca di risposte che sfuggono agli sguardi di chi li circonda.
È un’assenza di suoni che racconta l’isolamento, il male invisibile del nostro tempo, capace di insinuarsi tra le mura domestiche, nei corridoi di un ambulatorio affollato, nelle piazze un tempo luoghi di incontro e oggi ombre di sé stesse.
A Bitonto, come altrove, questa quiete inquieta assume molteplici volti. È il mutismo dei nostri nonni, spesso confinati tra quattro pareti, accanto a un comodino traboccante di farmaci, discreti spettatori di una cura che nessuno osa più reclamare. Un’alienazione scandita dal suono del nulla, da ricordi che si impolverano, da calendari che segnano giorni sempre uguali. Nonni che, nelle festività, imbandiscono una tavola che sembra sospirare, appesantita più dalle assenze che dai piatti colmi.
E poi c’è l’estraneità delle nuove generazioni, un tempo ragazzi del muretto nelle parrocchie o di Piazza Aldo Moro, simbolo di una socialità oggi dispersa. In questi luoghi, la vivacità di un tempo ha lasciato spazio all’eco di silenzi o, peggio, al clamore di manifestazioni devianti.
Eppure, ogni dimora custodisce una storia. E in ogni racconto si intravede un’opportunità: quella di costruire una comunità più solidale, capace di ascoltare i bisogni di ciascuno. Se è vero che la medicina territoriale pubblica arranca, compressa da modelli obsoleti e risorse inadeguate, è altrettanto vero che, in ogni angolo della città, si accendono scintille di speranza: progetti di sostegno sociale, iniziative culturali e spazi educativi che cercano di affiancarsi ai servizi sanitari, creando una rete più ampia di cura e attenzione. Perché, se la medicina da sola non basta, è attraverso un sistema pubblico integrato, che include assistenza psicologica, supporto alle famiglie e interventi sul disagio sociale, che si può restituire dignità e benessere a chi è più fragile.
Le parrocchie restano fari di accoglienza e conforto, offrendo pasti, abbracci e ascolto a chi non ha altro. A fianco di esse, un associazionismo instancabile e propulsivo che ricuce ferite invisibili e crea legami capaci di trasformare solitudini in incontri.
Un esempio luminoso è quello dei progetti di “vicinanza solidale,” iniziative semplici ma straordinarie: gruppi di famiglie che adottano simbolicamente persone in condizioni di vulnerabilità offrendo piccoli gesti quotidiani come un invito a cena, una telefonata o un aiuto pratico. In questi atti si riflette l’essenza della “famiglia sociale allargata”: la capacità di prendersi per mano senza aspettare che lo faccia qualcun altro.
E poi c’è la forza delle scuole, culle di speranza, dove i giovani custodi del futuro coltivano ancora il sogno di un domani diverso. Alcuni istituti hanno attivato percorsi di cittadinanza attiva, insegnando che prendersi cura del territorio significa anche far crescere il benessere collettivo. Qui si discute di solitudine, di inclusione, e si immaginano piazze di nuovo vive, dove nessuno venga lasciato indietro.
Il bilancio di fine anno non può limitarsi a elencare ciò che manca. È anche il riconoscimento di chi, ogni giorno, opera nell’ombra per colmare i vuoti. Perché, anche quando tutto sembra immobile, ci sono mani che costruiscono, gesti che accendono piccole luci nel buio.
Per il nuovo anno, il desiderio si fa limpido: non possiamo permettere che l’apatia sociale diventi l’abitudine di questa epoca. È tempo di accendere luci dietro ogni porta chiusa, di riportare le voci nelle piazze e di restituire dignità e presenza a chi vive ai margini dell’invisibilità. Questo è il momento di riscoprire la bellezza della rete di relazioni, di immaginare un nuovo modello di cura, dove nessuno resti indietro e ogni esistenza trovi il suo spazio di vita.
Bitonto, con le sue bellezze e contraddizioni, può diventare il laboratorio di un cambiamento necessario. L’augurio è che il nuovo anno non sia una semplice sequenza di giorni, ma un’occasione per trasformare la desertificazione relazionale in incontri luminosi e il silenzio in un coro di speranze vibranti.
Perché una città non è fatta solo di pietre e strade, ma di cuori che vibrano all’unisono, come un’orchestra capace di trasformare attese in melodie di rinascita.
Auguri, Bitonto, terra di storie e futuro.