Abbiamo ribadito più e più volte che quella che si affermò dopo la guerra, in Italia, fu una repubblica dei partiti, per usare la definizione di Pietro Scoppola nell’omonima opera. Le nefaste conseguenze portate dalle dittature plebiscitarie che si erano affermate tra le due guerre, a seguito della caduta dei precedenti regimi liberali, fornirono l’occasione alle organizzazioni partitiche per ripresentarsi e costituire un nuovo ordine costituzionale. Soprattutto per le sinistre lo strumento del partito fu utile per imporsi nella scena politica. Le organizzazioni partitiche hanno avuto l’indubbio merito di ridurre le distanze tra strutture di governo e luoghi sociali, anche grazie alla nascita delle sezioni territoriali.
Ma il sistema partitico non trovò unanime accoglienza all’interno del panorama politico italiano. Con regolarità, nella storia italiana (ma non solo), sono apparsi fenomeni di antipolitica militante, miranti ad aggredire il sistema partitico, dipingendolo come una gigantesca macchina di sopraffazione e di intrigo. E anche nel primo decennio di storia repubblicana questi fenomeni non mancarono. Lo abbiamo anche visto passando in rassegna i partiti e i movimenti che si imposero sulla scena politica nazionale e locale nei primi anni di repubblica. Per comprendere meglio il fenomeno conviene, questa volta, conviene allontanarsi dalla scena strettamente locale.
Ostilità verso il partito politico fu manifestata dagli ambienti liberali, favorevoli ad un ritorno al regime liberale esistente prima dell’avvento del fascismo e in chiave anticomunista. In una lettera inviata a Salvemini, Benedetto Croce, per citare un esempio, negò l’esigenza di tale istituzione per affidare a uomini saggi l’onere di perseguire il bene della patria. Per Croce, la partitocrazia insedia e corrompe la libera vita parlamentare.
Altro interprete della critica liberale ai partiti fu Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare, che aveva precedentemente accolto la nuova realtà del partito attribuendole caratteristiche compiutamente democratiche in quanto importante soggetto collettivo, attraverso il quale le realtà popolari, e tra esse quella cattolica in particolare, possono e devono inserirsi nel processo decisionale dello Stato, provocandone la trasformazione in senso democratico. Reduce dal suo esilio statunitense, divenne molto critico contro il sistema creato nel dopoguerra. Il vecchio leader del cattolicesimo politico maturò una profonda diffidenza ed ostilità per ogni forma di corporativismo e di interventismo statale nell’economia e per la proliferazione di enti pubblici, vista come retaggio del caduto regime fascista. Da queste premesse iniziò a polemizzare anche contro le ingerenze partitocratiche intese a controllare l’azione dei membri del Parlamento. Anche nelle pagine della Gazzetta del Mezzogiorno, Sturzo denunciò «l’ingerenza dei partiti attraverso l’organizzazione dei gruppi» e invoca regolamenti e disciplina parlamentare per contrastarla.
Lo stesso termine “partitocrazia”, del resto, fu coniato da un illustre esponente dell’area liberale, Roberto Lucifero, e fu poi diffuso dal giornalista e docente accademico Giuseppe Maranini, che in esso identificava un extralegale «Stato nello Stato», riprendendo un’espressione usata dai nazionalisti e dai fascisti per delegittimare i socialisti. Maranini, lungi dal rivendicare la centralità del Parlamento, tuonava contro la dittatura di assemblee elette con un criterio meramente quantitativo. Il pensiero del giornalista toscano riprendeva l’antiparlamentarismo delle teorie elitiste di Mosca, Michels e Pareto, che era stato presente anche nel liberalismo prefascista e nel pensiero fascista. Il sistema parlamentare agli occhi di Maranini era da bocciare, in quanto era un insieme di piccole clientele oligarchiche, che potevano facilmente piegare ai propri voleri le assemblee rappresentative. Sulla stessa linea, Il Borghese, periodico politico e culturale, espressione dell’area culturale di destra, che rimproverava ai costituenti di aver riproposto un sistema politico che non era stato in grado, in passato, di guidare il paese e che nel resto del mondo stava tramontando. Rimanendo nel campo della carta stampata, il giornalista liberale Mario Pannunzio, invece, già nel 1945, paventò il rischio che gli uomini della nuova politica si trasformassero in una casta chiusa e altezzosa.
Prima forza apertamente antipolitica, nell’Italia del dopoguerra fu il Fronte dell’Uomo Qualunque, fondato da Guglielmo Giannini, che aveva già definito i comitati di liberazione nazionale come un’esarchia quanto il Pnf. L’Uomo Qualunque raggiunse un notevole consenso elettorale, dando sfogo alla protesta contro i politici di ogni colore, disprezzati perché raffigurati come in preda ai più volgari appetiti. Ma dietro quel successo si nascondevano anche cospicui finanziamenti di Confindustria, la cui fine fu tra le cause della scomparsa, insieme alla nascita del Movimento Sociale Italiano, che ne accolse molti esponenti (transitati prima nell’Uomo Qualunque, alla ricerca di una rappresentanza politica), sebbene, nell’idea di Giannini anche il fascismo non godesse di stima. Il politico, giornalista e commediografo, in seguito alla morte del figlio sul fronte, aveva invocato la distruzione del mito del capo, dell’uomo provvidenziale che opprime la folla anonima e la manda a morire in guerra solamente per soddisfare le proprie ambizioni.
Tra le prime narrazioni antipolitiche vi fu anche quella monarchica, di cui il maggior rappresentante fu Achille Lauro, armatore napoletano prima vicino al fascismo e poi rappresentante del Mezzogiorno monarchico. Egli, appoggiandosi al carro del qualunquismo, entrò nell’arena politica insieme ad altri ex politici fascisti. Soprannominato “il Comandante”, oltre ad essere stato per due volte sindaco di Napoli, fu fondatore del primo esempio di partito personale, il Partito monarchico popolare. Fu editore del quotidiano locale Roma e presidente della Società Sportiva Calcio Napoli, aveva come stretto collaboratore il fondatore dell’emittente napoletana Canale 21. Dalle indiscusse doti carismatiche, per certi versi anticipa di trenta anni la figura Silvio Berlusconi e il regionalismo della futura Lega Nord, pur se a parti invertite. La sua era una protesta contro il prevalere del Nord, delle sue industrie e dei suoi partiti di massa, basata sul richiamo alla monarchia popolare e alla capacità gestionale del comandante carismatico. Con lui i monarchici vestirono i panni dei campioni del Sud contro gli altri partiti espressione di interessi del Nord, pur non disdegnando, all’occorrenza alleanze con la DC. «Poca politica, poche chiacchiere, molti fatti» era la populista promessa di Lauro, promotore di un Ministero di tecnici e competenti che potesse corrispondere alle immediate esigenze del Paese, in contrapposizione allo statalismo, al professionismo politico degli incompetenti e al dispotismo di pochi segretari di partito. Una propaganda di facciata dietro la quale si nascose quella Napoli devastata dalla corruzione e dalla speculazione edilizia, abilmente descritta da Francesco Rosi nel film Le mani sulla città.
Anche i neofascisti si riproposero, nelle vesti del Movimento Sociale Italiano, come l’antipartito, opposto ai partiti dell’ex CLN, artefici della sconfitta e colpevoli di tradimento. Essi cercarono di competere, nella critica anticomunista, con la Democrazia Cristiana. Un antipartitismo dovuto all’opposizione verso le forze dell’arco costituzionale.
A sinistra, invece, forme di avversione al sistema partitico ci furono in area anarchica, seppure in formazioni poco rilevanti.