Era il 27 maggio 2011 quando, a Beirut, un ordigno nascosto lungo la strada che collega la capitale libanese alla città di Sidone colpisce alcuni mezzi dell’esercito italiano. Sei soldati italiani, nel paese mediorientale per partecipare alla missione Onu Unifill II, rimangono feriti. Tra questi il 27enne bitontino Giovanni Memoli.
Al suo coraggio e alla forza della sua famiglia è dedicato il libro “Leonte”, presentato ieri al teatro Traetta dall’autore Antonio Bettelli, ufficiale dell’Esercito da tempo attivo sui fronti internazionali come Libano e Afghanistan, che partendo da quei tragici momenti, ha ripercorso la vicenda di Giovanni, la sua sofferenza e il suo ritorno alla vita. La sua “passione”, per dirla con le parole dell’autore.
«Alla giustizia non si arriverà mai – annuncia Bettelli intervistato dal giornalista Valentino Losito – La manovalanza veniva dai tanti campi profughi palestinesi che si trovano in Libano, campi dove le condizioni di vita sono brutte. Ma il mandante è impossibile saperlo. E non credo che, a parte per la comprensione delle motivazioni di quell’attacco, a Giovanni sia molto utile sapere chi sia il mandante. Anche perché il Libano è un paese complicato. Se qualcuno afferma di averlo capito vuol dire che non gliel’hanno spiegato bene. È un piccolo paese confinante con Siria e Israele, dove convivono 18 confessioni religiose, crocevia delle tre fedi monoteiste. Sin dalla prima guerra tra Israele e Palestina ospita migliaia di profughi. Dove in passato ci sono stati episodi come il massacro di Sabra e Shatila, in cui persone che si definivano cristiane massacrarono migliaia di civili palestinesi sotto il tacito assenso dell’esercito israeliano».
Tante le ipotesi sul movente di quell’attentato, in un paese che, nonostante gli odi tra le popolazioni che convivono in quel lembo di terra, non è in guerra. Dall’appoggio al G8 alle nascenti Primavere Arabe, grandi illusioni, come le ha giustamente definite Bettelli, alle dichiarazioni dell’allora ministro degli Esteri verso la politica di Assad. Ma, congetture a parte, nulla si sa ancora.
«Le cose non vanno male in Libano. Da ben 11 anni non c’è guerra. Ciò significa che i bambini fino a quell’età non hanno mai visto un giorno di conflitto – continua l’autore – ma non si può neanche dire che vada bene. Le diverse comunità presenti nel paese continuano ad odiarsi. Adesso cominciano a parlare tra loro, magari un giorno arriveranno anche a stringersi la mano, forse quando i confini a sud saranno ben delimitati e verranno meno le ragioni alla base dell’odio».
Ecco perché, per l’autore, è necessario continuare ad esserci: «Il Libano non è ancora maturo per reggere alle sue complesse dinamiche interne».
Ma più che sul Libano è sulla tragedia di Giovanni che si concentra il volume. Una vicenda da cui traspare, pur nella sofferenza, dignità, unione familiare e quel valore che solo la maternità è in grado di dare. Già perché proprio alla madre di Giovanni sono dedicati versi importanti. Solo nella maternità, scrive Bettelli, si può trovare quel fondamento di vita che può rigenerare la vita dopo un evento così traumatico.
«La storia di Giovanni insegna anche l’accettazione di sé, in piena sintonia con il messaggio cristiano della croce che Gesù ha portato con se. Giovanni impersonifica quel sacrificio evocato nel giuramento che ogni soldato fa. Il suo è un monito perenne all’etica del servizio. Perché la nostra è una professione particolare, che ha valore solo se ispirata a dei principi» conclude.
Presente all’incontro, ovviamente, anche il vero protagonista, Giovanni Memoli che, con la forza d’animo che in questi anni gli ha permesso di affrontare difficoltà e ostacoli, ha voluto ringraziare Bettelli, i colleghi e la famiglia per il sostegno di questi anni: «Sono tante le cose che vorrei dire. A soli 27 anni ho subito quel tremendo attentato. In tutto questo tempo non sono ancora riuscito a dare risposte per l’ingiustizia di cui sono stato vittima. Da un lato mi sento di dover guardare il bicchiere mezzo pieno, dato che molti miei colleghi non ci sono più. Dall’altro sento di dover trovare le forze per riprendere la mia vita».
Una forza d’animo che non cela la rabbia: «Spero che i bastardi che hanno fatto tutto ciò possano un giorno farsi un esame di coscienza. E spero nella giustizia divina».
A concludere gli interventi il sindaco Michele Abbaticchio, che ha lodato il concittadino per la grande forza che quotidianamente dimostra.