di ANGELO PALMIERI, SOCIOLOGO
Ripartirà da capo l’udienza preliminare per l’incidente del Mottarone, in cui morirono 14 persone, tra cui due bambini. L’unico a salvarsi fu il piccolo Eitan.
Dalla vetta agli abissi: l’ultima corsa della funivia sul Mottarone verso i numerosi specchi d’acqua si trasformò nel precipizio di una morte assurda.
Tutto sembrava rispondere ad un copione di scene già sperimentate e che si succedono ormai a ritmo serrato e da vari decenni ad intervalli dilazionati.
Siamo figli di una comunità slabbrata e dalla memoria languida: qual è la causa prima se non la stessa violenza che si è abbattuta su vittime innocenti ed ignare come quelle determinate dal crollo del ponte Morandi di Genova – trasformatosi in una fossa comune, – per ricordare soltanto uno degli eventi di cui si è tanto discusso?
E delle vittime, come se ne parla, oltre alla memoria celebrativa dell’anniversario del crollo? Con i risarcimenti in denaro per i familiari dei morti e per i superstiti, insieme alla individuazione dei colpevoli, che poi sarebbero coloro che devono rispondere penalmente e civilmente delle vittime del disastro.
La violenza si autoalimenta alla ricerca di nuovi campi di azione. Assuefatti al dominio tecnico ed economico, parliamo da tempo, in particolare dopo il periodo pandemico, di un καιρός in grado di generare un nuovo modo di con-vivere basato sulla solidarietà e sul rispetto dell’ecosistema planetario e, invece, la rottura di un cavo della funivia ci ha risucchiati nuovamente verso un annientamento disarmante e totale. Fuori da ogni finzione, in forme sempre più pervasive, continua sempre più a serpeggiare il delirio della misura razionalista che calcola ogni cosa, giustifica ogni politica economica in spregio al buon senso.
Non è più il tempo della socialità ideologica. E intanto ci crogioliamo col dire che è sempre stato così, che i disastri non sono altro che effetti attesi della cultura a trazione smaccatamente capitalistica tesa alla massimizzazione del profitto e al primato dell’Io.
Un management che guarda alla necessità di riformulare bilanci aziendali, e una politica che gioca al “massimo ribasso”. A chi importa se il massimo ribasso si coniuga con il disinvestimento di denaro nella sicurezza?
L’Italia resta il Paese con un’alta percentuale di morti per incidenti sul lavoro – tre al giorno – sempre a causa della scarsa o nulla attenzione alla salute dei lavoratori.
Altro paradigma del nostro tempo, quanta enfasi celebrativa delle performance scolastiche (altro che valenza inclusiva!) a supporto di un efficientismo da esibire nel grande mercato della concorrenza del “si salvi chi può”?
Il pensiero, dunque, è unico, debole e trasversale.
E se provassimo, invece, ad invertire la rotta, a ragionare diversamente, a interrogarci, a porci domande? Questo ci insegna Hannah Arendt a proposito del valore di ogni crisi.
Nel solco di questa tragedia che attende ancora una risposta di giustizia, possiamo provare a ridefinire la cultura sottesa al sistema di produrre, distribuire e consumare per evitare una semplificazione dettata dal “valore di scambio” che spesso finisce per alterare il carattere di scelte tese al ben-essere di tutti.
Siamo indissolubilmente legati gli uni agli altri; tale consapevolezza è una porta cardinale verso il mutualismo fecondo della economia di condivisione. L’inestricabile legame, che unisce gli esseri umani tra loro e li rende interagenti con tutte le specie viventi, nasconde un forte potenziale generativo che necessita di essere liberato e di trovare la sua intrinseca forma.
Questa è la sfida da cogliere col mea culpa di tutti e che si alimenta con le virtù della speranza e della responsabilità di ciascuno contro ogni becera ipocrisia. Lo dobbiamo al piccolo Eitan e alle sue angoscianti domande: Cosa ci faccio qui? Dove sono mamma e papà?
Dopo quattro anni, dovrà ancora attendere.