Mi districo maldestro fra le ombre della sera, m’intrufolo nel teatro antico, ho un appuntamento imperdibile con Luigi il drammaturgo, che con un tremulo lanternino illuminò le ferite invisibili del cuore umano. Guadagno con passo incerto il mio sgabello al prim’ordine, dalle poltrone un uomo, anziano e lieto anzichenò, con ampi cenni della mano mi saluta senza che gli occhi miei egri lo riconoscano. Buio in sala, cigola il sipario che si schiude austero. Sospese nel nero, figure rimpiccolite discutono animatamente fra loro. Proiettate così, sembrano marionette che parlano fra loro senza dialogare. Sembrano persone – ricordo un vago nesso con le maschere… – che si incontrano in pubblica piazza, anche se, vuoi per etimo, vuoi per assonanza, verrebbe fatto di scrivere “in platea”. Sarà la filosofia del lontano o il cannocchiale rovesciato?, pare suggerire una voce fuori campo. O l’abile genialità di Geppy Gleijeses… Decido di scattare una foto. Sfocata. Rimetto gli occhiali: non cambia nulla. Strizzo le palpebre, aguzzo la vista. Ecco… Donne eleganti con capoelloni piumati, galantuomini in doppiopetto, fanciulle curiose stanno parlando del caso bislacco di una vecchina, la signora Frola (una stupenda Milena Vukotic), e suo genero, il signor Ponza (un proteiforme Gianluca Ferrato).
La strana coppia s’è trasferita da poco in città e conduce una vita che definire bizzarra è pavido eufemismo: lei – occhietti pieni di malinconia, dolce sorriso e vocina lieve – abita nello stesso palazzo, ad un piano inferiore, non sale mai a trovare la figlia, superstite alla falcidie di familiari causata dal terribile terremoto del Marsico. Crudele oltremodo, il genero le vieta persino il più amorevole degli abbracci. Resta un paniere con esili messaggi scritti a far da spola dal balcone alle mani della madre. Urge una occhiuta commissione che indaghi, al più presto. Convocati, l’anziana signora racconta la sua storia e adombra la frenesia d’amore del parente acquisito. Il quale, di nero vestito, con melodrammatiche movenze svela a tutti l’arcano: la moglie Lina è morta quattro anni prima, lui si è risposato e la suocera è convinta che la nuova consorte, Giulia, sia ancora la sua piccola. Per assecondare la di lei pazzia, il pubblico funzionario tiene imprigionata in casa la sposa. Le versioni cozzano enigmatiche. Qual è la verità? Sul palco, tormentati dai dubbi atroci, si aggirano smarriti, che si rimirano attoniti dentro specchi, che ribalenano immagini deformi. Lamberto Ludovisi (imperiale Pino Micol) è l’unico che sorride beffardo perché sa che il vero non esiste, se non frantumato in mille, personali parvenze di verità. Il mistero prende sempre più le forme di un labirinto. Non resta che audire dinanzi al prefetto la povera prigioniera per smascherare tutti. I due indagati implorano affinché ciò non accada. Eppure, quando appare sotto un velo oscuro, i due le corrono incontro e le si genuflettono ai piedi chiamandola a gran voce: “Lina!”, lei. “Giulia!”, lui. “Io sono quel che mi si crede”, gela tutti, scomparendo, quel fantasma. Ohibò, “Così è (se vi pare)”. Cala in ogni dove un silenzio travagliato di perché. Sento il pubblico applaudire ammirato ed entusiasta, sull’impiantito gli inchini grati di pupi che dicono attori. Si sbraccia d’affetto infrenabile verso di me lo spettatore di prima. Ma chi è? Ed io, per lui, per tutti gli altri, per me stesso, chi sono?