Nel 1708, nel Napoletano, alla dominazione spagnola era subentrata l’austriaca. Frattanto Elisabetta Farnese, seconda moglie di Filippo re di Spagna, volendo, almeno in parte, fare recuperare alla corona spagnola i perduti domini italiani, allestì un esercito che affidò all’infante suo figlio Carlo, già proclamato, per la morte di Antonio Farnese, duca di Parma e Piacenza e principe d’Etruria. L’unica battaglia, che ebbe luogo tra Spagnoli ed Austriaci, avvenne, è noto, a Bitonto, con vittoria dei primi. I “fatti” della battaglia vennero descritti dagli studiosi locali e pubblicati in più edizioni nel 1877 (Ed. Garofalo), nel 1934 (Ed. Amendolagine) e nel 1984 (Massarelli-Robles-Rella). In quest’ultima pubblicazione intitolata “Bitonto e la Battaglia del 25 Maggio 1734”, il Generale Giuseppe Rella riporta lo schieramento delle forze in campo e la tattica che portò il Montemar allo sfondamento ed alla conseguente vittoria. Le truppe austriache comandate dal maresciallo Giovanni Carafa, principe di Policastro, cui fu aggiunto per l’occasione, il tenente maresciallo conte di Traun, occupavano la città di Bitonto con circa 1500 militi, ed erano situate fuori di essa a sinistra con 750 fanti nei pressi del convento di Sant’Antonio (Santa Maria della Chinisa), al centro con circa 3000 fanti disposti al riparo di muretti a secco, ed alla destra con circa 1500 militi tra cavalieri e granatieri nei pressi del complesso di San Leone. L’esercito spagnolo, composto da circa 16000 ispano-italici, comandato dal generale Don Giuseppe Carrillo conte di Montemar, aveva stabilito il quartier generale sulla via di Molfetta, con la chiesetta di S. Aneta per infermeria, ed avanzava su sette colonne per smantellare il dispositivo austriaco. La prima colonna, posizionata presso la torre di “Spoto”, era composto dai reggimenti Milano e Fiandra. In questa torre, utilizzata come osservatorio, data l’ottima visuale su tutto il territorio circostante, furono installati due pezzi di artiglieria che battevano con fragore la città di Bitonto. La seconda colonna era composta dalla brigata di cavalleria Borbone, la terza dai reggimenti Svizzeri, Guardia e Granatieri, la quarta dalla Guardia Svizzera e Spagnola, la quinta dalle brigate Pavia e Francia, la sesta dai Cavalieri Estremadura, Andalusia e Malta, la settima, infine, dai Carabinieri Reali. Lo sfondamento delle truppe austriache avvenne al centro, mentre l’aggiramento fu effettuato dai reparti di cavalleria spagnola che ben presto colsero gli imperiali alle spalle. La vera battaglia, si svolse dall’alba al tramonto del 25 maggio concludendosi con la disonorevole fuga del Belmonte e la dura resa del Rodoski. I feriti furono trasportati e curati nella Chiesa e convento di S. Francesco d’Assisi, dei Padri Cappuccini e di Santa Maria della Chinisa. I morti furono circa 2000 fra i due schieramenti e le salme dei soldati furono sepolte nei cimiteri conventuali situati nei dintorni della città, mentre quelle dei nobili furono sepolte nella chiesa di San Vito, situata nell’antico complesso di “Torre Franco De Facendis”. Sette anni dopo dal terrazzo di tale torre il vescovo Barba illustrò ai Reali di Napoli Carlo III e Amalia Walpurga le fasi della cruenta battaglia bitontina. Dalla cartografia a colori degli inizi dell’ottocento “Campagne del Principe Eugenio di Savoia” (collezione privata P. Fallacara), si può meglio osservare lo schieramento ed i successivi spostamenti delle forze in campo. Al centro di piazza “26 Maggio 1734”, a monumentale testimonianza della battaglia che in quel luogo si svolse tra le truppe spagnole ed austriache attualmente svetta l’Obelisco Carolino. Fu il Generale Giuseppe Carrillo, conte di Montemar, a far progettare e costruire l’obelisco tra gli ulivi del campo della battaglia. L’ingegnere del Genio Giuseppe Medrano fu incaricato del progetto, mentre i lavori furono diretti dal Ten. Colonnello Francesco Rorro e dall’ingegnere Gioacchino Magliano, coadiuvati dal sacerdote bitontino Nicola Pasquale Valentino, che si intendeva di architettura, soprannominato “priscizzo”. L’obelisco alto 18 metri, è di tufo rivestito da lastre di marmo bianco di Carrara, mentre di roccia dolomia bitontina sono gli scalini, i quattro cantonali e gli otto medaglioni incastonati sullo stelo. Le quattro lapidi marmoree, dettate dal Tanucci, Ministro di Carlo III, furono dedicate rispettivamente a Filippo V, Re di Spagna, delle Indie e delle Due Sicilie, a Carlo III, infante di Spagna, Re di Napoli e di Sicilia, Duca di Parma e Piacenza, al Generale Giuseppe Carrillo, Conte di Montemar, ed all’esercito spagnolo. Dalle “Memorie dell’Abate Giovanni Battista Lo Iacono”, apprendiamo che i marmi utilizzati per la costruzione dell’obelisco furono trasportati da Genova, mentre per le pietre di “color mischio”, furono estratte nel territorio bitontino da una cava esistente nelle vicinanze della chiesa della Madonna delle Grazie. Come si evince da vecchie foto, in principio l’obelisco presentava a vista quattro grandi scalini, dei quali purtroppo attualmente sono visibili soltanto due, in quanto i restanti si trovano sotto il livello della piazza, ed è lì, sotto di essi che si cela un piccolo “tesoretto”. In un antico documento bitontino viene riportata la seguente notizia:
“ A dì 28 maggio 1736 alle ore quattordici si pose la prima pietra della piramide fatta mettere da S.M. Napoletana e Siciliana, D. Carlo Borbone alla via di Giovinazzo, e propriamente avanti la cappella di S. Maria della Pietà dove appunto S.E. il conte di Montemar ruppe le truppe allemanne nella battaglia succeduta alli 25 di maggio del 1734. Detta funzione di mettere la prima pietra fu solenne con sparo e con suono di campane di questa città, e se ne rogò atto pubblico per mano di notar La Segna di Bari, che venne qui col precettore Celentano di Bari, da cui in nome di S.M. furono poste sotto della piramide due medaglie d’oro con quattro monete d’argento venute da Napoli, e dal detto colonnello fu posto del suo un pezzo da otto spagnuolo.”
Il Galanti, nella “Relazione ufficiale” inviata al re nel 1780, rilevò che l’obelisco doveva presto rovinare stante la cattiva qualità della pietra adoperata. Ciò invece non si è verificato, ed il grande obelisco tutt’oggi troneggia al centro della piazza, guardiano e custode del piccolo inestimabile “tesoretto”.