L’ultima puntata di questa strage, che l’anno prossimo compie 30 anni, si è consumata qualche settimana fa.
Al tribunale civile di Firenze, che non ha riconosciuto il risarcimento ai familiari delle 140 vittime di quella che è passata alla storia come la più grande tragedia della marineria italiana dal secondo dopoguerra. E che, ancora oggi, ha ancora notevoli punti oscuri.
Tutto parte da quella terribile sera del 10 aprile 1991. Lo scalo civile di Livorno sembra un porto militare statunitense, con molte navi militarizzate di ritorno dalla prima guerra del Golfo. Sono da poco passate le 22 e il traghetto “Moby Prince”, di proprietà della compagnia e famiglia “Onorato” salpa in direzione Olbia. In Sardegna, però, non arriverà mai perché il viaggio dura pochissimi minuti. Giusto il tempo di entrare in collisione con una petroliera dell’”Agip Abruzzo” ancorata in rada e trasportante 2.700 tonnellate di greggio altamente infiammabile.
Lo scontro provoca il rovesciamento del petrolio, di cui la maggior parte finisce in mare, ma un’altra consistente – in realtà non è mai stata quantificata nell’esattezza, forse tra le 100 e le 300 tonnellate – “entra” nel traghetto, che prende fuoco. Le fiamme, però, non circondano subito la “Moby Prince” ma lo faranno dopo una buona mezz’ora. I primi soccorsi sono chiesti alle 22.25, ma arrivano dopo oltre un’ora. Il bilancio delle vittime è da paura: ci sono 141 persone a bordo tra equipaggio e passeggeri: 140 muoiono, a salvarsi è soltanto Alessio Bertrand, un componente dell’equipaggio.
Inizia la lunga fase giudiziaria e processuale, portata avanti non senza tensioni e colpi di scena. Il processo di primo grado si svolge proprio a Livorno: parte nel 1995 e si chiude nel 1997. Quattro gli imputati: il terzo ufficiale di coperta dell’Agip Abruzzo Valentino Rolla, accusato di omicidio colposo e plurimo e incendio colposo; Angelo Cedro, comandante in seconda della Capitaneria di porto e l’ufficiale di guardia Lorenzo Checcacci, accusati di omicidio colposo plurimo per non avere attivato i soccorsi con tempestività; Gianluigi Spartano, marinaio di leva, imputato per omicidio colposo per non aver trasmesso la richiesta di soccorso. Tutti sono assolti per non aver commesso il fatto.
Nel 1999 si apre un secondo processo, questa volta a Firenze. Fumata nera, perché nel frattempo interviene la prescrizione. Nel 2006 Livorno tenta di riaprire il processo, ma la richiesta è archiviata.
Accanto a ciò che accade nelle aule dei Tribunali, la vicenda ha ampia eco per anni sui giornali, negli speciali televisivi, nelle librerie, e pure in Parlamento, dove non mancano le interrogazioni e, soprattutto, nel 2014 con una Commissione d’inchiesta che, tra le tante conclusioni, afferma anche che “l’accordo assicurativo siglato due mesi dopo l’incidente tra gli armatori delle due navi coinvolte ha condizionato l’operato dell’Autorità giudiziaria, a dimostrazione di ciò, a seguito di tale accordo, l’Agip Abruzzo è stata dissequestrata prima della definizione della fase processuale di primo grado, impedendo ogni ulteriore approfondimento. L’accordo prevedeva che l’ENI si assumesse i costi relativi ai danni alla petroliera e di inquinamento e la società Navarma i costi di risarcimento delle vittime del traghetto, chiudendo, di fatto, ogni possibile ipotesi di responsabilità”.
È resa pubblica nel 2018.
E per i familiari, oltre alla beffa delle sentenze penali, anche quella del tribunale civile del capoluogo toscano che ha negato il risarcimento.
“Moby Prince” è rimasta nel porto di Livorno fino al 1998, posta sotto sequestro probatorio ma accessibile a tutti. In quello stesso anno è affondata, quindi recuperata e demolita in Turchia.