DI CHLOE BAVARO
Cosa significa “pensare la guerra”?
Questa la domanda posta all’apertura della seconda serata di sApericena – la cultura a piccoli morsi, rassegna del magazine Primopiano.info svoltasi lo scorso venerdì 12 luglio nella suggestiva cornice dei Giardini Pensili di Bitonto.
Le due relatrici invitate a condividere il loro parere a riguardo sono Valentina Antoniol, ricercatrice di filosofia politica presso l’Università degli studi di Bari, e Valeria Ricchiuti, laureata in giurisprudenza d’impresa e responsabile del gruppo Amnesty International di Bisceglie. Smettere di considerare il fenomeno guerra come marginale è essenziale, spiegano: non c’è altro modo per realizzare che il rapporto profondo che lega la guerra e la politica non le rende l’una alternativa all’altra, e che la guerra è imprescindibile per la nascita dei diritti umani.
Nella nostra attualità la guerra è centrale: siamo costantemente chiamati a confrontarci e interrogarci su quest’ultima, e al contempo la guerra stessa ci interroga costantemente. “Possiamo dire che siamo in guerra? Magari no, ma possiamo dire che siamo in pace? Probabilmente neanche”, afferma a tal riguardo Valentina Antoniol, che affronta questo nodo problematico della questione tramite un confronto tra i pensieri del filosofo francese Michel Foucault e del giurista tedesco Carl Schmitt. La ricercatrice intende far notare ai presenti come il concetto di guerra, sviluppato in maniere completamente diverse da questi due esponenti di spicco del panorama filosofico, possa aiutare a parlare di guerra nell’attualità.
Entrambi gli autori evidenziano come sia fondamentale partire dal conflitto per comprendere la politica: per Foucault la guerra è sempre presente, come condizione permanente della società basata sull’assenza di unità del corpo sociale, sulla sua diversità. Per Schmitt, d’altra parte, ad essere sempre presente è la possibilità della guerra, causata da un perenne stato d’allerta contro gli attacchi nemici. La discrepanza tra i due pensieri arriva nella comprensione completamente diversa dell’altra parte del conflitto: per il giurista tedesco, il nemico è lo xenos, lo straniero o, più semplicemente, l’altro. Invece per il filosofo francese, che teorizza una guerra prolifica proprio grazie all’eterogeneità sociale, non si può arrivare a parlare di nemico: l’avversario è colui che, nello scontro, riesce a far sentire la propria voce, negando la presenza di un soggetto sociale omogeneo.
Per Michel Foucault non c’è mai stata una distinzione tra guerra e pace: cosa significa essere pacifisti, se l’assenza di conflitti risulta impossibile? Cosa significa pace, se sono proprio i conflitti a portare alle più importanti conquiste? Si apre con queste domande l’intervento di Valeria Ricchiuti, che racconta come è proprio dal conflitto per eccellenza, la Seconda Guerra Mondiale, che è nato il concetto di diritti umani.
“Diritti umani e conflitti armati possono convivere, anzi, devono farlo”, spiega l’attivista di Amnesty International, “e devono farlo perché alla base della nozione di conflitto c’è l’idea di annientare l’altro, di deumanizzarlo” continua Valeria, riprendendo la teoria di Schmitt. Seppur la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che viene presentata dalla relatrice come una sorta di carta costituzionale dell’attivismo, rappresenti degli standard umani minimi che dovrebbero essere garantiti a tutti, bisogna riconoscere che in realtà trattasi di privilegi, più che di diritti. “È importante indignarsi laddove, quegli stessi diritti che noi riteniamo basilari, non vengono garantiti a qualcun altro”, ed è qui che subentra l’attivismo, che cerca di trasformare questa indignazione in azione, attraverso mobbing, collaborazione con diverse organizzazioni internazionali e, soprattutto, attività di reportistica.
Per permettere ai presenti di toccare con mano l’importanza del lavoro di attivismo svolto da organizzazioni come Amnesty, Valeria ne presenta uno dei report più profondi e ampi mai scritti: “Israel’s apartheid against Palestinians: Cruel system of domination and crime against humanity”, soffermandosi sull’utilizzo del termine “apartheid” in quanto, ancor prima della situazione bellica corrente, i palestinesi subivano la limitazione di ogni tipo di libertà, in una situazione di effettiva reclusione.
Dunque, alla luce di quanto detto, come si può “praticare la pace”? C’è mai stata una pace intesa come assenza di guerra, o siamo semplicemente stati in situazioni di tranquillità selettiva in cui i diritti diventano privilegi?