“Now we’re all stoned,
They’ve ripped it all apart.
Collapse, collide”.
Non si può restare indietro rispetto alle proprie emozioni senza fare i conti con il proprio dolore quando a tappezzare il cuore di spaesamento sono le delusioni di chi comincia a sentirsi un problema anche se non lo è, di chi avverte una sensazione di nudità che sale tra pancia e petto e prova a respingerla, ma lei resta lì. Immobile!
Questo uno dei grandi insegnamenti del romanzo “Non restare indietro” di Carlo Greppi, dottore di ricerca in Studi storici e socio fondatore dell’associazione Deina Torino che da anni organizza viaggi della memoria e di istruzione ad Auschwitz e in altri ex lager del Terzo Reich, alla scoperta della storia.
La vita vista con gli occhi di un “buonannulla”, di uno scansafatiche diviene un urlo d’impotenza e di frustrazione e così Francesco, il protagonista, è spesso in ritardo e dietro una corazza di duro nasconde la fragilità delle nuove generazioni frantumate, poco ascoltate, un po’ abbandonate a se stesse.
Ma la vita è presente, passato, futuro, non è fatta solo di menzogne e il senso di inadeguatezza che si prova può essere combattuto.
Come?
Ci vuol del fegato mentre soffia il vento a non perdersi tra i meandri della testa quando tutto ciò che tira a caso diviene un vivere dentro come un comandamento, aggiustando il silenzio per stare a galla.
L’autore pone il protagonista dinanzi a un progetto importante nella nuova scuola che va a frequentare con la profdicuinondiràmaiilnome, una tipa in gamba che sa cogliere l’animo dei suoi studenti.
È difficile ricordare e dover ammettere che la tabellina dell’undici funziona o quasi per le grandi date del Novecento, 1911, 1922, 1933, 1944 e richiama alla mente Hitler e Mussolini.
L’istituzione del Giorno della Memoria dal 20 luglio del 2000 pone lo sguardo sulla Shoah che in ebraico significa catastrofe, termine usato molto in Italia e in altri paesi perché l’idea di sacrificio (Olocausto) sembra suggerire che le vittime vivessero persecuzioni che stavano subendo come la volontà del loro Dio mentre in inglese si continua ad usare Holocaust.
Ciò che colpisce il lettore è la capacità da parte dell’autore di descrivere un evento così tragico con un linguaggio disinvolto, accattivante, adatto agli adolescenti per addentrarsi fra pagine di storia davvero penose con imput interessanti (foto, racconti, proposte di lettere ad alcuni personaggi e infine il viaggio sui luoghi della memoria).
Il cambiamento di Francesco si accompagna alla scoperta di un mondo guardato dal di dentro e presentato da Gianluca ed Elena, due giovani adulti (per dirla con Francesco) che spiegano ai ragazzi della III C la Shoah rileggendola a partire dai personaggi chiave, dalle scene di chi ha dovuto cedere come monsieur LaPadite per proteggere le sue tre figlie.
Francesco si lascia trascinare e interrogare dalle foto in bianco e in nero, tenendo sempre il cappuccio a metà della nuca, fingendo un freddo che in classe non c’è e matura un senso di ribellione alle ingiustizie.
-Non valgo un cazzo, gli aveva urlato Simone e l’aveva rassicurato che valeva eccome! Poi una macchina l’aveva travolto e gli era rimasto Kappa, più grande di lui, che gli dava consigli, uno giusto, insomma.
Era diventato grande all’improvviso al funerale di Simone ma il mondo dei grandi non gli piaceva mica.
L’autore gioca nettamente sui contrasti, su due mondi che paiono incontrarsi e poi si allontanano: le parole che restano aggrappate dentro in un frasario forte come un’onda prima o poi esplodono e non mollano la presa.
Francesco lo spiega a Gianluca che ogni volta che la madre gli dà del buonannulla è come se gli dessero una bella mazzata, che gli adulti spesso non domandano mai ai giovani cosa pensano della vita e delle cose, sì che bisogna avere delle distanze di sicurezza da rispettare.
Deve imparare ad usare la rabbia, a pensare a Simone combinando qualcosa di buono sul campo di calcio, deve spazzare il velo di dolore dallo sguardo e, se è vero quel che afferma Gianluca, alla fine di ogni tempesta se si continua a camminare con la speranza nel cuore, non si cammina mai soli.
Il viaggio nel cuore nero del Novecento, uno dei punti più drammatici della storia dell’uomo è un’occasione per imparare a porci le domande importanti sulla vita e su noi stessi, sul nostro ruolo del presente.
A volte bisogna anche imparare a disobbedire, se è la cosa giusta.
La metafora del viaggio interiore proposta dall’autore insieme al viaggio concreto nei campi di concentramento di Auschwitz, Birkenau, diviene un’occasione per lasciare le paure e incominciare ad affrontare le emozioni per quello che sono: forti, stridenti, grandi, troppo grandi in uno scenario impietoso e crudele.
Varcare la soglia di Auschwitz con la scritta “Arbeit Macht Frei”, le tre parole della derisione come ribadisce Primo Levi, significa entrare in un terreno sconosciuto e fatto di troppi silenzi ingiustificati.
Il campo è claustrofobico, una discarica di esseri umani provenienti da tutta Europa nella logica dei persecutori.
C’è chi piange come Alessia, chi resta con gli occhi spalancati e le braccia strette strette sui fianchi come Alessandro, chi sente brividi di disgusto percorrergli le braccia come Francesco dinanzi alla camera a gas.
Trovarsi fianco a fianco, sfidati da sentimenti ancora inesplorati, avvia a prendere coscienza di quel che si è e si possiede in un balbettio di vita nuova.
Prendersi sottobraccio, sentirsi vicini, abbracciarsi per prendere fiato, oltre tutta quella follia snocciolata terribilmente sotto i loro sguardi, scoprendo la profondità gli uni degli altri.
Nel tempo di ogni folata di vento nell’immensità di Birkenau ciò che toglieva il respiro era il pensiero che non c’era alcuna possibilità di fuga, che la vita allora non era come nei videogiochi dove start again allude a riprovare.
Chi provò a ribellarsi fu fatto fuori perché le trappole erano innumerevoli. E gli occhi lucidi erano un ritorno all’essenziale.
Kappa aveva ragione! Sarebbe tornato diverso dal viaggio. Tante purtroppo le pratiche di sterminio massiccio (Ex Jugloslavia, Ruanda, Cambogia, Armenia, quello dei nativi americani dopo la scoperta dell’America o quello degli Herero in Namibia più di un secolo fa) ma ha capito che ci vuole un pizzico di follia per uscire dal conformismo.
Ora sa che quando tutto intorno è uno schifo, si ha troppa voglia di vivere e allora bisogna preoccuparsi del futuro, dopo aver visto dove è stato in grado di precipitare il mondo.
“We can be heroes”.
E Kappa ha sempre ragione!
Bisogna seguire il consiglio dell’autore: spiegare la Shoah ai ragazzi perché imparino a guardare avanti e a captare le rime della storia cogliendo nel presente i segnali che ricordano quel passato.
Non restiamo indietro dunque e adoperiamoci sempre perché non abbia mai a perdersi il messaggio forte della storia!