Sono bastati un blackout e
una strada piombata nel buio per tre giorni ad indurmi non tanto a un’istintiva
geremiade da disservizio comunale, quanto ad un’inattesa e profonda introspezione.
Sono le otto di sera del 2
ottobre, sto rientrando a casa a piedi. Lasciata via XX Settembre, supero il
canalone ricoperto di erbaccia incolta e mi immetto su via Bazzarico, vale a
dire su quella strada che si apre un varco tra le ultime case di Mariotto prima
di serpeggiare nella campagna murgiana. All’improvviso, il quartiere s’inabissa
in un buio fondo.
Così, avanzo con
circospezione nella vacua e silente oscurità della strada, mitigata da uno
spicchio di luna che lancia sull’asfalto triangoli di luce smorta. L’eclissi
improvvisa mi coglie di sorpresa, fitta ed accerchiante al punto tale da
fagocitare anche il più bel sentimento. Solo le rade luci provenienti dalle
case rischiarano debolmente la scena, ma nulla pare udirsi ed ancor meno
muoversi.
Dove sono le persone con
cui m’intrattengo di solito? Dove le case allegre, ammantate ora di un’inquieta
luce caravaggesca? Che fine ha fatto il passo baldanzoso, l’incedere fermo e la
battuta di spirito che fino al giorno prima m’avevano accompagnato a casa? Perso
in questi pensieri affretto i miei passi, guardando il cielo sconfinato le cui
stelle baluginanti punteggiano l’oscurità di mille sorrisi infantili.
“Ecco finalmente un cielo!”, dico a me stesso.
Ma al buio tutto sembra
disporsi a farmi paura, i fantasmi della mente sogghignano, paure ataviche
rivivono: i miei passi, che puntano decisi verso casa, lungi dall’essere
l’usuale e bucolico intrattenimento, divengono pura fisiologia di un gesto
frettoloso. Nel dispiegarsi di quel cupo e tagliente baratro, le coordinate più
elementari della razionalità si sperdono in un mondo grottesco e soprannaturale
in cui s’infrange ogni mia faticata certezza. Poi, l’angoscioso fruscio delle
foglie, un rèfolo di vento gelido, l’allungarsi di una sagoma in lontananza, il
silenzio rotto dal lontano rintocco di campane, gli occhi lucenti di un gatto
acciambellato in un cantuccio mi portano a immaginare una strega che si aggira
nei paraggi, una di quelle classiche streghe dai capelli grigi e scarmigliati, 5smaniosa di uscire allo scoperto. Cerco un suono familiare, una voce dalla
strada ma niente! Nessuno mi soccorre, neanche quegli amici ulivi immersi nella
più tenebrosa vacuità.
Ma casa mia per fortuna è
lì, a pochi passi. Intravedo la piccola facciata che pare aspettarmi, la scura
inferriata e le fioriere sulla ringhiera, immerse in un velo d’umidità
argentea. Casa!… scrigno d’intimità in cui avvilupparsi, come in un sogno
fatuo e sdolcinato, nella cui effusione si dissipano le nebbie della mente
Il buio, dunque. Il 2 ottobre
ho familiarizzato col buio, remoto luogo d’infanzia, terreno vergine su cui
coltivare la più fulgida filosofia di vita. Quella di chi, in un cielo
stellato, riconosce l’autorità della propria legge morale.