Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia e l’Intera Europa erano un immenso cumulo di macerie. Molte industrie e molte infrastrutture essenziali per l’economia erano andate distrutte dai bombardamenti: ponti, ferrovie, strade, porti. Bisognava ricostruire, nonostante la carenza di capitali. La disoccupazione era a livelli altissimi e, specialmente nelle aree più povere, come le regioni del Sud Italia, era in corso un’altra guerra, contro la miseria.
Tuttavia, nonostante questo quadro non certo rassicurante, solamente nel giro di pochi anni le cose iniziarono a cambiare, l’economia ritornò a crescere rapidamente per un lungo periodo che sarà interrotto solamente dopo quasi trenta anni. Iniziò, in Europa, quel periodo detto “Trentennio glorioso”, per usare l’espressione dell’economista francese Jean Fourastiè, caratterizzato da prosperità, crescita del Pil e dell’occupazione. Un periodo di quasi trenta anni, dal ’45 al ’73, che sarà interrotto solamente dalla crisi petrolifera degli anni ’70.
Un periodo in cui si inserisce quel periodo di crescita dell’economia italiana, compreso tra gli anni ‘50 e gli anni ’60, detto “miracolo economico” o “boom economico”. Anni felici per l’Italia, che conobbe, come il resto d’Europa una fortissima crescita economica e uno sviluppo industriale e tecnologico impressionante. Impressionante soprattutto se si pensa alle condizioni in cui versava negli anni immediatamente successivi al conflitto, da cui era uscito sconfitto e lacerato da una sanguinosa guerra civile. In questo periodo l’Italia, da paese ad economia principalmente agricola, divenne una potenza industriale ed economica mondiale. Le città si espansero, specialmente quelle a più forte vocazione industriale, a discapito delle campagne, che conobbero una fuga verso la città che rese necessaria un’intensa attività edilizia, spesso caotica e incontrollata, tanto da incorrere in diffusi fenomeni di speculazioni.
Un periodo di crescita ben simboleggiato dalla diffusione delle automobili di piccola cilindrata, degli elettrodomestici, del turismo di massa, dalle vacanze verso le località balneari, in particolare quelle romagnole di Rimini e Riccione.
Tra i fattori di questa crescita, il Piano Marshall, l’aumento della richiesta di metallo, la fine dell’economia protezionistica e la riapertura del commercio internazionale, la disponibilità di materie prime e fonti di energie, la realizzazione di un’industria siderurgica moderna, che, a partire dalla metà degli anni ’60, vedrà a Taranto l’apertura del quarto Centro Siderurgico “Italsider”, uno dei maggiori complessi industriali per la lavorazione dell’acciaio in Europa.
A Brindisi, invece, sorse una grande industria petrolchimica che si aggiunse alle imprese meccaniche e aeronavali e garantì opportunità di lavoro a tecnici e operai provenienti dal territorio e dalle province e regioni limitrofe.
Anche Bari conobbe un’industrializzazione, nella zona che si estende dalla statale 16 verso Modugno, lambendo il territorio di Bitonto in quella che, ancora oggi, è la zona industriale di Bari. Per dare un assaggio delle aspettative del Sud, delle prime avvisaglie di un miracolo a trazione settentrionale, riportiamo alcuni passaggi tratti dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 4 aprile ’63. Il quotidiano, chiedendosi se fosse vero che il miracolo economico italiano riguardasse solamente il triangolo industriale Milano – Torino – Genova, spiegò: «Le prime ciminiere già fumano nella zona industriale di Bari. Le maggiori sono quelle del Pignone Sud (dell’Eni e della Finanziaria Breda) e delle Fucine Meridionali. Il Pignone Sud è stato il primo grosso stabilimento industriale che ha cominciato a funzionare nella zona. Sorge a quattro chilometri da Bari, sulla vecchia statale per Modugno […]. Progetta e produce apparecchiature pneumatiche ed elettroniche per il controllo e l’automazione di impianti industriali e strumenti meccanici di precisione. Si lavora a pieno ritmo nei settori delle valvole di regolazione e sicurezza e dei quadri di comando e di controllo. La società ha già un grosso portafoglio di commissioni: il 30% della produzione è assorbito dal mercato interno, sia da parte delle società del gruppo Eni, sia da altri committenti italiani; il 70% va all’Estero, specialmente sui nuovi mercati dei Paesi del terzo mondo».
«Che significa, allora, questo? – si chiede la Gazzetta verso la fine dell’articolo – Vuol dire evidentemente che il miracolo economico si sta espandendo e sta venendo anche dalle nostre parti; vuol dire che il benessere, sia pure lentamente, si sta avvicinando anche a noi. A Bari, quindi, c’è già un notevole sostrato industriale».
Anche il Sud Italia, dunque, conobbe uno sviluppo lo conobbe, nonostante fosse più povero rispetto al Settentrione, più rapido e travolgente, ma anche pieno di squilibri e di limiti. Uno sviluppo minore che non riuscì ad eliminare quel gap tra Nord e Sud della penisola e che giunse, peraltro, in netto ritardo, come ci spiegò Franco Bastiani, di Confartigianato, nell’inchiesta che il nostro periodico mensile pubblico nell’edizione di ottobre 2019. Il Sud Italia quella forte crescita economica la conobbe, in alcune aree, solo negli anni ’70, dopo che nel resto del paese quella spinta positiva già si era affievolita o, addirittura, si era conclusa, dal momento che la crisi petrolifera aveva minato alla radice i fattori della crescita, facendo venir meno una delle sue cause, la disponibilità di fonti energetiche a basso costo.
Negli anni ’70 il miracolo economico riuscì a dare i suoi frutti, quindi, anche nelle regioni meridionali. E gli effetti si videro anche a Bitonto, che vide nascere sul proprio territorio tante attività economiche. Sorsero molti laboratori tessili, grazie alla maggior apertura al credito degli istituti bancari verso le piccole e medie imprese, colonna portante dell’economia italiana e del Sud in particolare, e grazie alle cooperative di garanzia. Una crescita continuata fino agli anni ’90, quando il numero delle attività economiche presenti sul territorio iniziò irrimediabilmente a calare.
Dunque, nonostante la crescita che comunque ci fu e l’industrializzazione che conobbero diverse città meridionali, più che ridurre il gap che divideva l’economia del Sud da quella del Nord, il miracolo economico sancì, per il Sud, un ruolo subordinato all’economia delle regioni settentrionali. L’assenza di un’industrializzazione capillare non permise alle industrie del Sud di competere realmente con i grandi gruppi economici del Nord e quel famigerato gap, più che ridursi, risolvendo la cosiddetta “questione meridionale”, aumentò. La Cassa per il Mezzogiorno, sebbene permise la realizzazione di importanti infrastrutture, specialmente nel settore idrico e nella viabilità, non diede i risultati sperati. Senza contare il forte flusso migratorio che, dal Mezzogiorno, si diresse verso il Settentrione, spopolando e impoverendo molti territori del Sud.
Ad accorgersi dei limiti del miracolo economico italiano fu anche la politica.
«Il miracolo economico non esiste, poiché di esso godono soltanto pochissimi privilegiati. Il miracolo economico diverrà operante solamente quando risponderà alle sollecitazioni di una politica di piano, capace di sottrarre lo sviluppo italiano alle logiche settoriali e dei gruppi privati, per ancorarlo a logiche ed interessi generali» fu il commento dell’allora ministro dell’Economia Giulio Pastore al congresso della Democrazia Cristiana che si tenne a Napoli nel gennaio ’62. Già nei primi anni ’60, quindi, ci fu chi iniziò a vedere i limiti di quel “miracolo”, andando oltre i toni trionfalistici usati specialmente dalle forze di governo.