Sfiducia, disillusione e odio verso la classe politica nella sua interezza e verso il sistema dei partiti, da sinistra a destra, antipolitica come base del pensiero, uso di nomi storpiati in modo ironico e dispregiativo per indicare e ridicolizzare gli avversari politici, denuncia degli “alti costi della politica”, volontà di dar voce all’uomo comune, l’uomo della strada, e agli scontenti del sistema politico.
No, non stiamo parlando di Beppe Grillo e del suo Movimento 5 Stelle, ma del Fronte dell’Uomo Qualunque, formazione politica nata nel dicembre 1944, che ebbe, nei suoi pochi anni di vita, un notevole consenso elettorale, rappresentando la protesta contro i politici, raffigurati come in preda solo a volgari appetiti. Fu la prima formazione antipolitica dell’Italia repubblicana.
Ben 30 furono i suoi eletti nell’Assemblea Costituente e, a Bitonto, alle elezioni del 2 giugno ’46, ottenne 1894 preferenze.
Fu fondato da Guglielmo Giannini, giornalista, regista e drammaturgo napoletano, di idee liberali e liberiste, e fortemente antifascista, per ragioni sia politiche che personali. Politiche perché criticava il centralismo decisionale del regime, i metodi utilizzati durante il ventennio e l’ingresso in una guerra il cui esito disastroso, a suo dire, era chiaro sin dall’inizio. Personali perché, in quella guerra, da lui sempre criticata, perse il suo caro figlio Mario. Una tragedia personale che scatenò in lui l’odio verso il mito del capo, dell’uomo provvidenziale, colpevole di opprimere la folla mandandola a morire in guerra solo per le ambizioni personali.
«Quest’opera è dedicata a una meravigliosa creatura d’amore, mio figlio Mario, che cessò di vivere all’età di ventun anni, undici mesi, diciassette giorni, nel pieno della salute e della bellezza il 24 aprile 1942. Una versione ufficiale dice ch’egli cadde nell’adempimento del proprio dovere verso la patria, ma in realtà fu assassinato insieme a milioni di altri innocenti esseri umani da alcuni pazzi criminali che scatenarono la guerra» scrisse nel suo libro “La folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide”.
Ma all’antifascismo era accompagnato un acceso anticomunismo, dettato dall’ideologia liberale alla base del movimento. Punti cardine dell’idea qualunquista erano, infatti, il liberismo economico individuale, con un’economia lasciata ai privati, la limitazione del prelievo fiscale e della presenza dello Stato nella vita sociale del Paese, a cui si associava anche la lotta al capitalismo della grande industria.
Nella sua campagna anticomunista si servì anche del giornale “L’uomo Qualunque”, periodico ufficiale del Fuq, in cui il commediografo fu ideatore di una “menzogna bene architettata” come lui stesso, successivamente, la definì. Ingigantì, infatti, il numero dei morti fascisti e civili da parte dei comunisti, nel “triangolo rosso” parlando di 300mila uccisioni.
Precedendo di mezzo secolo Beppe Grillo e i suoi soprannomi dati agli avversari, Giannini trasformò Ferruccio Parri in Fessuccio Parri, Piero Calamandrei in Piero Caccamandrei, Il Partito Comunista in Partito Concimista. Per il Fuq, gli “upp”, gli uomini politici di professione, di qualsiasi colore, erano il nemico da combattere, da mandare in campi di concentramento. Nella visione di Giannini, se non ci fossero gli uomini politici di professione, parassiti e nemici della pace interna di tutta la comunità, non ci sarebbero le guerre. La politica e i partiti sono cose che servono soltanto ai capi per avere potere e privilegi. Di qui l’invito a mandarli «tutti in un campo di concentramento dove possano sfogarsi a eleggere chi vogliono a capo del campo, e sorteggiamoci noi, con calma e senza seccature, quel migliaio di deputati e senatori di cui abbiamo bisogno».
Come scrive nella sua già citata opera, per Giannini, all’uomo qualunque servono solo persone che «sanno governare, e che di fatto governano, illuminandoci le strade di notte provvedendo a che le fognature funzionino, e che le derrate arrivino sui mercati e a tutti gli altri bisogni pubblici».
La sede bitontina dell’Uomo Qualunque era in via De Ilderis, vicino l’incrocio per via Matteotti. Alla sua guida c’era Raffaele Capaldi. Non ebbe mai modo di candidarsi ad elezioni amministrative, in quanto si costituì dopo che si era già votato. Il locale fu preso di mira e incendiato durante i tumulti del novembre del ’47, insieme alle sedi della Democrazia Cristiana e del Circolo Unione, in quanto considerati dalla parte dei padroni, dei latifondisti. Ma alla base dell’attacco all’Uomo Qualunque c’era anche un altro motivo. Molti dei suoi esponenti, nonostante l’antifascismo del fondatore, erano ex fascisti che nel Fronte avevano visto un’occasione per tornare a partecipare alla vita politica (prima della nascita del Movimento Sociale Italiano, che contribuirà al crollo dei consensi). L’Uomo Qualunque ebbe molto consenso nel Mezzogiorno, da parte dei grandi proprietari terrieri che temevano rivolte delle masse contadine sostenute dai comunisti e, appunto e dagli esponenti del dissolto Partito Nazionale Fascista. Tanto che i comunisti bollarono la sua costituzione come partito politico come un tentativo di ricostruire il partito di Mussolini, tentando, senza successo, di ostacolarne la nascita e l’attività e di sopprimere la testata giornalistica.
Ai nostri taccuini, anche il reduce dalla guerra Emanuele Coviello, ricordando i tumulti del ’47, riferì che a Bitonto il Fronte dell’Uomo Qualunque era formato da persone provenienti dal Pnf. Lo fece raccontando la vicenda del padre, arrestato nonostante non avesse partecipato alle rivolte. A dare alle forze dell’ordine il nome del genitore, disse Coviello, fu un esponente del Fuq, ex fascista, con cui c’erano stati dissidi legati alla retribuzione del lavoro in campagna: «Furono loro, gli ex fascisti andati nell’Uomo Qualunque, a fare i nomi di quelli da arrestare come responsabili delle sommosse. Ben pochi, invece, tra i veri responsabili, furono presi».
L’esperienza qualunquista finì nel ’49 a causa di diversi fattori: il venir meno della componente ex fascista, a seguito della nascita del Msi, l’esaurirsi dei finanziamenti di Confindustria, dopo la rottura con quest’ultima, il rafforzamento della Dc e gli errori strategici di Giannini che, dopo aver provato ad allearsi con Dc e Msi, provò con i comunisti guidati da quello stesso Togliatti che poco tempo prima aveva definito “verme”. La decisione provocò l’abbandono di molti militanti.
Ma come scrisse lo storico Michele Prospero in un articolo su L’Unità dell’agosto 2012, la sconfitta della retorica qualunquista (termine che in seguitò assumerà l’odierna valenza negativa) si ebbe anche grazie alla forza e all’abilità dei partiti e dei leader politici di allora, che attirarono Giannini nella trappola del confronto su temi specifici.
Forza che, oggi, manca del tutto.