La filiera dell’auto è in
difficoltà. Lo è dappertutto, ma in Italia sembra che lo sia di più. Non è uno
di quei fatti che fa notizia o di cui si ha percezione: il traffico continua ad
essere elevato in rapporto al disegno delle nostre città; la mobilità è
percepita come difficile e disordinata; parcheggiare rimane un’avventura da
raccontare ad ogni appuntamento.
Il settore automotive, però, peggiora di giorno in
giorno. Dire che non è l’unico ambito a soffrire, non aggiunge nulla, perché in
questi casi “mal comune” non fa “mezzo gaudio”. Basta riflettere sulla capacità
di assorbire lavoratori di questa industria pesante e del suo indotto, per
capire che sono numeri capaci di affossare un Paese, se contassero disoccupati.
Colpisce la percentuale di
mancate vendite da computare ai giovani tra i 18 ed i 29 anni: “nel 2005
rappresentavano il 14% del mercato – dice Romano Valente, Direttore Generale
della UNRAE (Unione Nazionale Rappresentanti Autoveicoli Esteri) – oggi valgono
appena il 9%”. È importante, perché i 18 anni e la patente rappresentano il
traguardo di una mobilità indipendente. Ci si preparava, pressando i genitori a
cambiare la macchina o, per chi lavorava, contando i soldi mancanti
all’acquisto del “sogno”. Sembra non essere più così. Forse, oltre alla
generale difficoltà delle famiglie, scarseggiano i prodotti in grado di far
sognare. Il prodotto automobile appare omologato, non viene più percepita una
vera identità di marca. A parte la carrozzeria e gl’interni le macchine sono
simili, a prescindere dal marchio che portano. A volte sono costruite nella
stessa fabbrica, come il caso esemplificativo di Citroën C1, Peugeot 107 e
Toyota Aygo, con il 92% dei componenti in comune.
Questo tipo di produzione
si giustifica con le economie di scala, con la possibilità di offrire prodotti
dal prezzo più contenuto, ma i costruttori continuano a non vendere. Insistono
nel dire che gli automobilisti scelgono in base alla carrozzeria e poco importa
loro di cosa c’è sotto. Eppure i web
forum sono pieni di commenti sul piacere di guidare l’una o l’altra auto e
sulle loro differenze tecniche. C’è ancora, quindi, chi fa caso a questi
dettagli. Sono le differenze che muovono le scelte, che motivano un acquisto,
che fanno venire voglia di cambiare.
Per i ragazzi,
probabilmente, è più avvincente una discussione sulle capacità degli smartphones, che parlare di automobili.
Non è più di moda parlare
delle prestazioni di un’auto. Non è solo questione di velocità massima, ma
anche di capacità di accelerare presto – per compiere o completare un sorpasso
e non per “ingarellarsi” sulla pubblica via – e frenare altrettanto bene. Si
tratta delle reazioni di un autotelaio “sano” alle “manovre al limite” e non
dei provvidenziali interventi del controllo elettronico di stabilità, per
completarle.
La comunicazione dei costruttori
è ricca di dettagli sulla connettività dei sistemi di infotainment dei loro modelli, ma poco dice sulle loro sospensioni,
eppure sono queste che assicurano il comportamento di un’automobile, la cui mission è andare per strade e non essere“social”.
Non so se tutto ciò sia
accaduto in ossequio ad una comunicazione politically
correct o per inseguire un nuovo mercato, ma manca qualcosa. Manca
l’elemento che invogli le persone a raggiungere la macchina dei desideri o, se
non proprio quella, una che le assomigli. Non da fuori, ma nel comportamento
stradale, nel gusto. Una macchina per la quale valga la pena lavorare di più,
mettere da parte il necessario, fare un piccolo sacrificio. In pratica, manca
un sogno da realizzare ed averlo aiuterebbe non solo il mercato dell’auto.