La storia che stiamo per raccontarvi affonda le sue radici negli anni ’70. Nell’arco di pochi mesi, dall’11 settembre del 1971 al 6 giugno del 1972, ben cinque bambini saranno trovati morti nel nostro borgo antico, all’interno di una misera cisterna.
Quasi tutte le vittime erano imparentate tra loro e sulle colonne de “La Stampa” di Torino del 15 dicembre ’72 si legge di come si pensava ci fosse una “faida tra famiglie”. Famiglie che vivevano in un contesto socio – culturale povero, fatto di “venditori di stracci o che molto spesso si dedicavano ad attività illecite per sbarcare il lunario”, come notò il giornalista Aurelio Calitri. Una piccola isola, quasi un ghetto, in cui si viveva di “silenzi, paure e superstizioni”, scrisse “Il Tempo” di Roma.
Tanto che persino il sindaco dell’epoca, Domenico Larovere, al cronista rispose che “Si trattava di un gruppo isolato, emarginato, estraneo alla vera Bitonto”.
Ma tra quelle case, in quel clima sociale e umano di triste disagio “Il problema era provvedere ad una sistemazione di questa gente che consenta loro di vivere e lavorare in maniera più dignitosa – scrisse il giornalista Giovanni Valentini -. L’eliminazione di un ghetto non può risolversi senza una ragionevole e civile disponibilità ad assorbirne la parte ancora sana e recuperabile”.
Così, nel tempo in cui c’erano più fatti e meno sprechi di energie sui social, si creò l’Asilo “Pantaleo”. La scuola materna nacque proprio in quei luoghi, in risposta alla tragedia che la città aveva subito.
«Lasciammo la parrocchia di sant’Andrea il 6 dicembre del 1964 e ci trasferimmo – ci racconta il prof. Marco Vacca –. Cercai di non far rimanere vuoti quegli edifici, ma non ci fu verso. Così con il prof. Domenico Saracino, il prof. Cosimo Labellarte, il prof. Cenzino Lattanzio, suor Beniamina ed altre due suore che lasciarono il convento per venire a vivere e lavorare nella casa che, la famiglia Pantaleo aveva donato per il progetto. In tutto questo, c’era la mano di Mons. Aurelio Marena che comprò un proiettore e la lente del cinemaScope: li mise nelle mie mani e molte iniziative filmiche avvennero grazie a lui. Inaugurammo il proiettore con il film “Processo a Gesù” di Diego Fabbri, che Monsignore volle vedere con noi».
«Il prof. Saracino coinvolse il sindaco Saverio Granieri che, in prima linea, partecipava alle riunioni, mobilitava finanziamenti e poi c’era don Ciccio Acquafredda che, nel frattempo, aveva lasciato la chiesa di san Giovanni, per venire con noi nella parrocchia di san Domenico», racconta.
«Ci fu questa bella mobilitazione con incontri per gli adulti, catechesi, cineforum, ma soprattutto la scuola materna dove lavorava moltissimo il prof. Lattanzio (che abitava a due passi di lì). Tutti remavano nella stessa direzione: la parrocchia di san Domenico, l’amministrazione comunale, noi tutti maestri volontari e il prof. Saracino che, oltre ad essere un grande sindaco, era un grande suscitatore di responsabilità. Anche dopo la sua nomina, non lasciò né le sue responsabilità civiche, né il centro antico: quei bambini non dovevano stare per strada, dovevano passare l’intera giornata lì nella scuola dove, era stata creata anche la refezione».
Qualcuno si riusciva ancora a salvare? «Beh sì e la presenza fu provvidenziale, visto che, per la piega che prese la faccenda, quel periodo di lotte non sarebbe mai finito. Invece i bambini furono tolti dall’atmosfera terribile che si era creata e portati in un contesto gioioso e di condivisione».
E oggi? «Oggi ci sono degli organismi istituzionali che sono sostenuti da finanziamenti pubblici, da questo senso esplicito di coinvolgimento. All’epoca invece questi benefici non c’erano. Facevamo tutti altri lavori, eravamo sempre liberi di non fare più nulla, di sbagliare: eravamo lì per un senso civico e di dovere nei confronti del prossimo»
Ma tutt’ora, in qualche modo quella zona è rimasta un po’ “ghetto”: «La mossa più sbagliata è stata la chiusura di quelle due parrocchie. Credevamo tanto in quella forma di presenza e nell’aiuto e l’ascolto delle famiglie, persino con il Centro pastorale famigliare a Santa Maria la Porta che, all’epoca, era parrocchia».
Sembra un’altra vita. Un altro tempo. Ma è solo ieri e c’è ancora qualcuno che racconta con nostalgia le attività, l’impegno, l’abnegazione, per il gusto di un sorriso.