Il 24 ottobre, per chi ama la storia tout court, e in modo particolare quella del nostro Paese, non è una data ordinaria.
Perché ricorda una delle più grandi – se non la più grande, certamente è la più conosciuta anche grazie ai testi scolastici – sconfitte militari italiane.
È il 1917. Quarto anno del Primo conflitto mondiale, che doveva essere una guerra lampo perché l’impero austro-ungarico e i tedeschi dovevano fare piazza pulita di tutto e tutti.
Siamo a Caporetto, oggi città della Slovenia, ma all’epoca fronte caldissimo della battaglia tra austriaci e tedeschi e l’esercito italiano. Fino al 1915 – lo erano dal 1882 – erano tre nazioni che andavano d’amore e d’accordo grazie alla Triplice Alleanza. Poi, però, allo scoppio della guerra, lo Stivale decide dapprima di dichiararsi neutrale (lo poteva fare, eccome, in base all’articolo 4, secondo cui “nel caso che una grande potenza non firmataria del presente trattato minacciasse la sicurezza degli Stati di una delle Alte Parti contraenti e la parte minacciata si vedesse perciò costretta a farle guerra, le due altre Parti si obbligano ad osservare verso la loro alleata una neutralità benevola. In questo caso ciascuna di esse si riserva la facoltà di prendere parte alla guerra, se lo giudichi opportuno, per fare causa comune con il suo alleato”), poi di passare, addirittura, dall’altra parte dello schieramento, per colpa del Patto di Londra, poi rivelatosi in gran parte fasullo (chiedere a Gabriele D’Annunzio per conferma).
Siamo a Caporetto, dicevamo. Esattamente 100 anni fa. Il fronte più caldo della battaglia tra gli eserciti sopra citati.
Ebbene, agli albori del 24 ottobre, l’esercito austro-tedesco sfonda il fronte tra Plezzo e Tolmino. In gran segreto, guidati dal generale Otto Von Below, tedeschi e austriaci ammassano uomini e mezzi su una linea che va dal Monte Rombon a Selo sull’Isonzo.
Alle 2 del mattino inizia il grande tiro a segno verso le truppe nostrane, per di più in grandissimo svantaggio numerico. All’alba si prosegue con il bombardamento di artiglieria. Poi, in diversi punti del fronte, partono attacchi di fanteria con la tecnica dell’infiltrazione rapida.
Troppo per il gruppo di uomini guidati male da Luigi Cadorna. Tant’è che il 25 ottobre, il giorno successivo, le nostre difese crollano ovunque, anche appesantite da un lato dall’interruzione di tutte le linee di comunicazione, dall’altro dalla lontananza delle riserve.
Per gli italiani inizia una lunga e inesorabile ritirata, che si sarebbe arrestata solo sul Piave, laddove poi un’altra storia, più bella, ha iniziato a mormorare.
Ma c’è di più: il 28 ottobre l’alto comando militare italiano si rende protagonista di un gesto vile e senza commenti: tenta di attribuire la responsabilità della disfatta alla viltà dei reparti della seconda armata.
Ma la menzognera versione di Cadorna (“vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico”) non convince fin da subito il nuovo presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, che anzi lo sostituisce con Armando Diaz.
Questa, però, è la Storia che si sa.
C’è anche quella di cui si parla un po’ meno. Quella dei primi civili – si tratta di borghesi che avevano deciso di lasciare le proprie case solo una manciata di ore prima, quando alcuni soldati di passaggio avevano raccontato loro, con terrore, ciò che stava accadendo lungo il vicino fronte – che iniziano a scappare verso Udine già la mattina del 25 ottobre.
Oppure quella di diverse centinaia di migliaia di persone che aveva lasciato le province friulane e venete conquistate dall’esercito austro-ungarico – ma anche quelle non invase – per riparare in altre Regioni d’Italia. Di coloro che invece in quei territori, occupati e non, avevano deciso di restare, lo avevano fatto per i motivi più diversi ma tutti, indistintamente, venivano definiti dall’opinione pubblica, con spregio, «austriacanti», collaboratori della tirannia straniera.
Già, perché la verità è che nelle drammatiche settimane seguite alla rotta di Caporetto l’Italia venne attraversata da oltre 630mila profughi e da 100 mila soldati, come riporta lo storico trevigiano Daniele Ceschin nel saggio “Gli esuli di Caporetto”, edito da Laterza. Furono civili provenienti dalle province di Udine, Belluno, Treviso, Venezia, Vicenza, o dall’altopiano di Asiago e del distretto di Schio, divenuti rifugiati con la Strafexpedition del maggio-giugno 1916; trentini, triestini, goriziani, istriani, fiumani e dalmati nonché i rimpatriati a causa della guerra.
Tutti volti, vite, racconti e narrazioni che il tempo non può sbiadire…