A volte, per spiegare talune situazioni, sono necessarie poche parole. Soprattutto se a pronunciarle sono i diretti testimoni: “Sapevamo che ci stavano portando a morire nelle camere a gas e abbiamo preso la decisione migliore. Piuttosto che obbedire agli ordini dei carnefici nazisti avremmo sfidato la morte, lottando con onore e dignità”. Raymond Guerenè faceva parte di quel gruppo di coraggiosi rom e zinti (leggi zingari) che ha cercato di ribellarsi all’olocausto nazista nei loro confronti, in realtà già ampiamente iniziato da anni. Ma c’è un aspetto da far notare subito. Guerenè ha tirato fuori quel terribile ricordo nel maggio 2010, in occasione della prima celebrazione in un Paese europeo di quella terribile pagina di storia. Già, perché la “rivolta degli ultimi” come viene chiamata si era consumata 66 anni prima. Maggio 1944. Ma per colpa di coloro, e sono in tanti, che di mestiere fanno gli internatori di verità e coscienza nel cemento e per una politica mondiale connivente, per tanti anni c’è stato un silenzio assordante. Quasi più fragoroso di quello che si è effettivamente consumato.
Ma quello che è successo il 16 maggio 1944 è solo una delle puntate più acute e pungenti di un odio inspiegabile di un gruppo di uomini verso altri uomini. Di un vero e proprio genocidio, per nulla secondo a quello degli ebrei. Solo che il termine “Shoah” lo sentiamo ripetere tutti i giorni ed è pure sui libri di storia, la parola “Porrajmos” (grande divoramento), non la masticano in tanti. Eppure, secondo gli ultimi dati, i morti sono stati quasi 500mila.
Lo sterminio degli zingari e dei rom ha incipit già a fine XIX secolo, quando in Germania è istituito un apposito ufficio di polizia con compiti specifici di controllo degli zingari, che nel 1926 diventa “Ufficio centrale per la lotta alla piaga gitana”. Dal 1933 in poi, quando Adolf Hitler diventa anche Cancelliere, la caccia all’uomo diventa selvaggia, è motivata dal fatto di voler e dover prevenire e reprimere la criminalità e la delinquenza sociale, e raggiunge un primo punto di non ritorno poco dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, con l’estensione delle leggi razziali anche agli zinti.
E, per non farsi mancare davvero nulla, anche qui c’è una “soluzione finale”. Sempre nel 1942, guarda caso. Una sorta di Protocollo di Wannsee parte seconda. Nel dicembre di quell’anno, infatti, il capo delle SS, Heinrich Himmler, ordina di internare gli zingari ad Auschwitz, insieme alle prostitute. Tutti avrebbero avuto sul petto un triangolo nero e una Z cucita sul vestito.
Ed è qui, allora, nel campo di concentramento più famigerato e infamante del mondo e della storia, che il 16 maggio 1944 arriva l’ordine di eliminare gli oltre 4mila detenuti appartenenti alle popolazioni nomadi. Per i gerarchi nazisti nulla di complicato in realtà, se non ordinaria routine. Non potevano immaginare, però, che avrebbero trovato difficoltà. E che i rom e gli zingari avrebbero venduto cara la pelle, si sarebbero rifiutati di uscire perché avvisati delle intenzioni nemiche, e armati di tubi di ferro, vanghe e altri attrezzi usati normalmente per il lavoro.
La rivolta, insomma, è servita. E porta in dote ben 11 ufficiali tedeschi ammazzati, e tanti altri feriti. Durerà ben tre mesi, fino al 2 agosto 1944, e l’epilogo è agghiacciante.
Perché in quella notte sono barbaramente trucidati 2.897 tra rom, nomadi e zingari.
Fine dei giochi? Non proprio. Siccome, infatti, la discriminazione contro i rom è proseguita in tutta l’Europa dell’est e in quella centrale anche dopo il conflitto, al processo di Norimberga non sarà ammessa la costituzione di parte civile dei superstiti di etnia nomade e la questione rom avrà poca visibilità.
Per vedersi muovere qualcosa, si deve aspettare la pienissima Guerra fredda.
Il 1979. Anno in cui la Germania occidentale ha riconosciuto che la persecuzione dei nazisti è stata motivata dal pregiudizio razziale, consentendo così ai sopravvissuti di poter fare richiesta di risarcimento per le sofferenze e le perdite subite, ma molti di loro erano già morti.
Ma soprattutto il 1994, a 50 anni esatti da quei fatti. Gli Stati Uniti inseriscono il “Porrajmos” nel US Holocaust Memorial Museum di Washington.