Di lì a due giorni sarebbe accaduta la strage terroristica più devastante e sanguinaria della storia d’Italia. Quella alla stazione di Bologna, dove una bomba piazzata nella sala d’attesa ha provocato la morte di 85 persone e il ferimento di altre 200.
Ebbene, 48 ore prima accade qualcosa di “strano”, anche se poi, a dire la verità, tanto particolare non lo è. Perché rientra sempre all’interno di quel filo segreto che collega il più roboante attentato di origine “nera” agli eclatanti cadaveri eccellenti in salsa “rossa”.
Perché si va dall’eccidio di Acca Larentia (in realtà tutto dovrebbe partire dal 1969, da un’altra bomba, quella messa a Milano nella Banca nazionale dell’Agricoltura), al capoluogo emiliano, mettendo in mezzo tanti e tanti anni di tentativi di sovvertire, in qualsiasi modo, l’ordine costituito. Politico ed economico.
Milano, allora. Il calendario riporta la data del 30 luglio 1980. Non sono neanche le 2 del mattino, e davanti alla sede del Comune, Palazzo Marino, esplode un’autobomba dalla potenza devastante.
Tutto accade pochissimi minuti dopo la conclusione del primo Consiglio comunale, quello della giunta targata centrosinistra guidata dal sindaco Carlo Tognoli.
Stando alle cronache dell’epoca, la maggior parte dei consiglieri comunali aveva da poco lasciato il Comune, mentre lui, il primo cittadino, era ancora chiuso nella sua stanza. All’improvviso, un boato. La prima autobomba che scoppia nella città meneghina, ma non nuova a stragi di matrice terroristica.
Una Fiat 132 piena zeppa di esplosivo, parcheggiata sotto la sua finestra, salta in aria, si disintegra e provoca un cratere per nulla insignificante.
Per fortuna, però, si evita la carneficina perché scoppia soltanto uno dei tre carichi preparati. Ad avere la peggio è un passante, con qualche lieve ferita.
Al di là di tutto, però, il messaggio arriva roboante: il terrorismo voleva distruggere il neonato esecutivo di colore rosso nella più importante città del Nord Italia.
Certo, ma chi? Matrice nera o rossa? Ed è qui che bisogna riflettere, in mezzo a fasulle rivendicazioni ed evidenti depistaggi. Ed è stato il settimanale “L’Espresso” a tornare sulla questione.
A prendersi la colpa dell’accaduto, proprio la mattina di quel giorno, è una sigla sconosciuta: “Gruppi armati per il contropotere territoriale”.
Esistono davvero? La firma nasconde un grandioso e sofisticato depistaggio della destra eversiva, che ha fatto le prove generali per quello da far accadere nella città felsinea. Destra neofascista romana, allevata e protetta dalla P2.
Per anni, però, nessuno ha collegato l’accaduto di Milano a quello di Bologna, seppur vi erano, fin dal principio, una montagna di indizi sulla matrice politica.
Le uniche testimonianze che ci sono, sono arrivate da due donne. Ed entrambe hanno un unico filo conduttore: a mettere quell’utilitaria davanti a Palazzo Marino sono stati esponenti di un’altra sigla. Ben più famigerata: nuclei armati rivoluzionari, i Nar, a cui comando c’erano Valerio Fioravanti e Francesco Mambro, condannati – insieme a Luigi Ciavardini – per la strage di Bologna.
I colpevoli, però, non sono mai stati assicurati alla Giustizia. Ma negli anni ’90, una nuova riapertura delle indagini, ha schiarito le idee: quello accaduto il 30 luglio va inserito nel medesimo disegno eversivo di 48 ore dopo.
E non è un caso. Il capoluogo lombardo e quello emiliano erano le città simbolo della sinistra. Metterle in ginocchio significava presentarsi come vendicatori delle vittime di destra.