Il folklore popolare da sempre ispira racconti e film dell’orrore. Le storie sui vampiri, rese celebri da scrittori e registi, affondano le loro radici in miti molti antichi. Anche il personaggio di Dracula, immortalato da Bram Stoker, mischia la biografia del sovrano della Valacchia Vlad Tepes III, noto come l’Impalatore, con le leggende che per secoli hanno circolato nell’Europa orientale su spaventosi non-morti che si cibano di esseri umani. Soprattutto del loro sangue.
Ma qualcosa di vero c’è.
I vampiri esistono davvero e per dimostrarlo non serve andare in Transilvania. Basta risalire il corso del fiume Adda e fermarsi nel borgo di Bottanuco, in provincia di Bergamo.
Ed è proprio qui che nasce, si sviluppa e muore la storia del “vampiro di Bergamo”, il primo serial killer italiano studiato dalla scienza. Un assassino seriale che cerca nell’omicidio una soddisfazione di natura sessuale. Un serial killer che, come il conte Dracula, succhiava il sangue delle proprie vittime. E non è affatto un modo di dire.
E con lui torniamo in un’Italia che non esiste più, arcaica, e come nazione nata appena da un decennio.
Il calendario segna la data dell’8 dicembre 1870, il dì dell’Immacolata Concezione. La 14enne Giovanna Motta si sta recando in un paesino vicino Bottanuco, e per la precisione Suisio, ma improvvisamente scompare. Viene trovata 48 ore dopo non solo senza vita, ma in una pozza di sangue, completamente denudata, bocca piena di terra, evidentemente strangolata, ma soprattutto con il collo pieno di morsi, la carne di un polpaccio strappata, gli organi genitali asportati.
Qualche mese dopo, aprile prima e agosto 1871 poi, due donne sono aggredite dallo stesso uomo. Denunciano ma le forze dell’ordine non muovono un dito.
Molto peggio va ad Elisabetta Pagnoni il 27 agosto 1872. Uscita di prima ora al mattino, non fa ritorno a casa ed è trovata strangolata e sventrata, con segni evidenti di graffi e morsi e una gamba stata tagliata e portata via.
Ma c’è la svolta. Qualcuno ha visto tutto e ha denunciato. Il seriale ha un nome: Vincenzo Verzeni, figlio di contadini, residente proprio a Bottanuco e considerato da tutti un tipo molto strano, nonostante abbia soltanto 22 anni. Prima di Giovanna Motta, aveva tentato di uccidere la cugina, soffocandola mentre dormiva, senza riuscirci.
Nel 1873 va alla sbarra, e finisce in tribunale. La sua personalità è talmente contorta e affascinante da essere materia di studio per Cesare Lombroso, il padre della criminologia moderna, al quale racconta ogni dettaglio e, soprattutto, che le graffiature e i profondi solchi incisi sulle cosce sono stati fatti con i denti per poter bere il sangue. Perché? Era l’unico suo modo per raggiungere l’orgasmo.
Verzeni è condannato all’ergastolo e ai lavori forzati, e sfugge alla pena di morte solo per evidenti squilibri mentali.
Presto, però, è trasferito in un manicomio criminale, dove però tenta di impiccarsi senza fortuna, e quindi finisce a Civitavecchia.
Torna a casa dopo oltre 30 anni di reclusione, ma la morte lo accoglie il 31 dicembre 1918.